sabato 22 ottobre 2011

Esposizione sintetica del discorso filosofico di Severino (cap. VIII de "La struttura concreta dell'infinito")






                     Avvertenza

  1. Originarietà eterna dell’essente
  2. Il tempo come svolgimento dell’eterno
  3. Contraddizione della verità e contraddizione dell’errore
  4. Al di là della morte e dell’illusione: coscienza inesauribile del Tutto
  5. Il nichilismo dell’Occidente: filosofia, politica, tecnica


Avvertenza

In questo capitolo vengono raccolti i tratti fondamentali dell’intero pensiero filosofico di Severino: dalla fondazione dell’eternità e cioè del non divenir altro da parte degli essenti, al modo in cui tale eternità si pone nel suo concretarsi all’infinito dopo lo spegnimento del <<contrasto tra destino e isolamento della terra>>. Nell’ultimo paragrafo vengono esposte, inoltre, le tematiche principali relative alla <<storia del nichilismo occidentale>>; e vengono esposte tenendo presente che esse sono tali soltanto in relazione ai paragrafi precedenti, e cioè nel loro esser legate alla suindicata fondazione dell’eternità (proprio perché anche la <<storia del nichilismo occidentale>> è, in quanto <<positivo significare del nulla>>, un essente eterno).
                È bene chiarire, d’altronde, che in questo capitolo il discorso è condotto in modo acritico, nel senso che si lascia parlare il linguaggio di Severino, ovviamente secondo l’interpretazione di esso che qui si mostra. Si badi allora a non confondere quel che in questo capitolo vien detto – e che è appunto la semplice sintesi non già del contenuto che in quest’opera si intende testimoniare, ma del linguaggio mediante il quale Severino esplica il suo pensiero –, con quanto, appunto, si vuol denotare attraverso il linguaggio degli altri capitoli.
                È importante appurare, cioè, che benché si pongano, in questo capitolo, delle espressioni o affermazioni analoghe, similari o identiche a quelle che strutturano il linguaggio dell’intera opera, è tuttavia essenzialmente diverso il senso complessivo che in questo libro si intende indicare: alcune affermazioni di questo capitolo (dedicato al discorso di Severino), che appaiono linguisticamente uguali a quelle che si mostrano negli altri capitoli (nei quali appare il pensiero che il linguaggio di quest’opera vuol designare) – e sulle quali si insiste assiduamente proponendole con una certa ricorrenza –, sono semanticamente diverse da queste ultime.



1.     ORIGINARIETÀ ETERNA DELL’ESSENTE 

Qualcosa – l’essente – è in luce. L’esistenza di qualcosa, cioè, è anapoditticamente (originariamente, immediatamente, principialmente) affermata, nel senso che non esiste una strada che conduca alla posizione di qualcosa, proprio perché, se l’affermazione dell’esistenza dell’essente fosse qualcosa di attinto mediante (una <<mediazione>> che non è appunto un’immediatezza) un processo, ne seguirebbe che ciò che percorre questa via non è sin dall’inizio un <<ciò che>>, appunto perché il <<ciò che>> (ciò che esiste) è lo stesso <<qualcosa>> (<<essente>>) a cui esso vorrebbe pervenire attraverso o al termine di un cammino. Il percorso stesso non sarebbe tale, perché sarebbe e insieme non sarebbe ciò che esso è. Ognuno di noi (ogni cosa) è qualcosa invece che nulla, e il qualcosa che ogni essente è non deve giungere in un luogo diverso da quello originario affinché sia tale: è immediatamente qualcosa. <<“Per affermare che l’essere è non c’è bisogno, né può esserci bisogno di alcuna mediazione”: ciò significa: “Che l’essere sia è per sé noto”. Per sé noto: cioè noto non per altro. Se ciò per cui l’essere è noto è lo stesso essere che è noto, che l’essere sia è immediatamente noto o presente. Immediatezza fenomenologica>> (La struttura originaria, p. 143).
                La verità è proprio la verità immediata dell’essente – è il de-stino, cioè l’eterno consolidarsi (il de) dello stare (cioè dello stino) delle cose –, che è sempre attuale in sé e per sé: in ogni quando e in ogni dove è sempre presente la verità innegabile dell’essente, perché essa è l’esser qualcosa da parte di tutto l’esistente, e in ogni tempo (futuro o passato che sia) e in ogni luogo è appunto manifesto l’essente e non il nulla. Se l’attualità non fosse la verità, nulla potrebbe essere attuale; pertanto, l’uomo (e ogni cosa) non è un essere che possa solo in un futuro aggrapparsi alla verità, in quanto è la verità ad includere originariamente (da sempre e definitivamente) ogni tempo, e quindi anche la totalità del futuro. Anzi, la verità non è nemmeno qualcosa a cui ci si debba <<aggrappare>>: noi siamo la verità, siamo cioè l’esistente, invece che nullità. L’incontrovertibile verità dell’essente è l’unica verità assoluta a partire dalla quale si può stabilire cosa è questo o cosa è quello – cos’è autentica felicità, e poi le sofferenze e gli orrori, la vita e la morte, il passato e il futuro ed ogni singolarità del Tutto: << […] ogni discorso che sostiene di “avvicinarsi” all’incontrovertibilità della verità, proprio perché è presuntivamente “vicino” non è l’incontrovertibile. Sia “il più vicino”, sia “il più lontano” dall’incontrovertibile stanno a una distanza infinita da esso>> (Studi di filosofia della prassi, p. 309).
 

                La presenza di qualcosa è la stessa originarietà coscienziale, collocale, ovverosia l’affermazione immediata dell’esistenza di qualcosa: l’af-fermare qualcosa è il fermarsi originariamente su se stessi. <<Originariamente>>, nel senso che nessun <<movimento>> può condurre a questa stasi.
                E la fermezza dell’essente è affermata perché l’essente è identico a sé (l’essente è l’essente – principio di identità) e non è l’altro da sé (l’essente non è il non essente, il nulla – principio di non contraddizione): <<L’eternità dell’essente è “fondata” sull’esser sé dell’essente, nel senso che essa è affermata […] perché l’essente è se stesso e non un niente. Non si afferma che, all’opposto, l’essente è se stesso perché esso è eterno>> (La Gloria, p. 430). L’essente – tutto l’essente (e quindi anche una foglia, una stella, un atomo, e così via) – è eterno, nel senso che non proviene e non si dissolve nel nulla: ciò che è uguale a sé non può affiorare sopraggiungendo da ciò che gli è altro, altrimenti non sarebbe ciò che esso è, sarebbe cioè contraddittorio, inattuabile. La <<ragione>> che implica l’eternità delle cose (l’<<immediatezza logica>>, nel linguaggio de La struttura originaria) è posta, si manifesta, e questo porsi è apparire della ragione. In altre parole, che qualcosa sia se stesso e non sia l’altro da sé si mostra, e il mostrarsi è il mostrarsi di questa stessità indissolubile.
                Ciò detto, a chiarimento dell’affermazione dell’eternità di ogni cosa, è di fondamentale importanza la seguente argomentazione esplicativa. Che qualcosa sia eterno non significa che esso escluda da sé un tempo (uno scorrimento – un inizio ed una fine): non può significare che tale qualcosa non abbia niente a che vedere con un movimento. L’eternità del Tutto è la stessa medesimezza di tutti gli essenti: è l’esser uguale a sé da parte dell’essente. E poiché ogni essente è se stesso, è se stesso anche quell’essente di cui appare l’affiorare a un certo momento del tempo: l’aggiungersi di un essente è quest’essente che si aggiunge (che si addentra nella coscienza), e anche quest’essente affiorante è identico a sé. Stiamo dicendo, cioè, che quando qualcosa si affaccia nell’apparire – ad esempio questo tramonto che si mostra all’orizzonte –, il farsi avanti del tramonto è il farsi avanti del tramonto (A è A, B è B), ovverosia il tramonto iniziante è eterno proprio nel suo essere <<tramonto iniziante>>.
                In altri termini: l’eternità, cioè il non venire dal nulla da parte di qualcosa (e il suo non finire nel nulla), è l’eternità di tutto l’esistente; e l’esistente è anche (ad es.) quest’inizio della giornata di oggi (ossia la giornata di oggi nel suo iniziare). Ragion per cui è necessario dire che la giornata di oggi, il cui iniziare è in luce, non inizia essendo stata altro da ciò che essa è, ossia il significato (l’essente) <<la giornata di oggi, di cui si mostra il sopraggiungere>> (sia x questo significato) non inizia ad essere x: x è già da sempre e per sempre x, perché è contraddittorio che x, in quanto è x, non sia x. Intendiamo dire, cioè, che l’accadere di qualcosa (il cadere sopra qualcosa che si mostrava ancor prima di esso) è sì un provenire, ma non un provenire dal nulla, ossia è eterno.
 

                Ciò che si manifesta è che le cose sono uguali a se stesse, anche nell’incessante fluire che le accompagna. Il cambiamento delle cose non può mostrare che qualcosa non è se stesso, non può mostrare cioè che il mare non è il mare, che il vento non è il vento: ogni cosa, e quindi anche le cose che sopravvengono e si dileguano, è ciò che essa è, sempre e inevitabilmente. Noi possiamo vedere che un fiore giunge a mostrarsi, ma non possiamo vedere che un fiore non è un fiore: possiamo anche non vedere in ogni tempo e situazione questo fiore di cui ora constatiamo l’apparire, ma non possiamo vedere che il suo incominciare è un non essere stato <<questo fiore di cui ora constatiamo l’apparire>>. Il giungere eterno del fiore è la negazione che il fiore sia il risultato di una trasformazione in cui qualcosa (un certo non-fiore) inizia ad essere qualcos’altro (lo stagliarsi del fiore); il divenire che si svela continuamente non può essere un diventare qualcosa di diverso da ciò che si è: << […] affermando l’esistenza del divenire, e pensando che, nel divenire, qualcosa diventa altro da sé, si pensa che qualcosa, diventando altro da sé, è altro da sé. Anche se non lo si riconosce, affermando l’esistenza del divenire altro da sé si afferma l’esistenza dell’esser altro da sé, ossia l’esistenza di ciò che d’altra parte è pensato come ciò che non può esistere. Inteso come divenir altro da sé – identificazione –, il divenire non può esistere, è nulla>> (Tautotes, p. 14).
                Il nostro sguardo non può constatare che qualcosa non è – non è stato o non sarà – uguale a sé, non può rilevare che qualcosa (ad es. un uomo adulto) è stato altro (bambino), altrimenti accerterebbe l’esser bambino da parte di quel non-bambino che è l’adulto: vedrebbe che il bambino è, in quanto bambino, adulto. Ciò che si manifesta non è che il bambino, cessando di essere bambino, diventa adulto; ciò che vediamo è che dopo il manifestarsi del bambino, che è identico a sé – ossia è eternamente il manifestarsi del bambino (il bambino è sempre il bambino, non può essere diverso da sé) –, si mostra l’adulto. Il bambino non inizia ad essere il bambino (non viene dal nulla), sebbene il non iniziare ad essere bambino da parte del bambino sia un iniziare. Non può apparire ed è contraddittorio che il bambino non sia il bambino, e pertanto è necessario che esso sia eterno. Sull’eternità di ciò che diviene, in Oltrepassare si dice che <<l’eterno incominciante apparire non incomincia a essere incominciante apparire […] – e d’altra parte, proprio perché questo apparire eterno è eterno come incominciante apparire, è impossibile che ciò che appare in questo apparire debba sempre apparire nel cerchio dell’apparire>> (p. 235).
                        Come non si mostra, guardando un film, che il primo tempo, finendo di essere primo tempo, si trasforma nel secondo tempo, così, osservando la realtà concreta, non si mostra che un primo evento (la giornata di oggi) non è più se stesso, e diventa un secondo evento (la giornata di domani). È solo un’interpretazione scorretta quella che vuole che il cambiare delle cose sia una continua trasformazione annientante delle stesse. Ciò che è manifesto è un susseguirsi di eventi, uno dopo l’altro; e non può apparire che qualcosa è stato o sarà nulla (non-qualcosa), perché, se così fosse, si mostrerebbe che qualcosa è nulla. <<Il logo esige l’immutabilità dell’essere – esige cioè che l’essere non sia nulla e quindi non esca e non ritorni nel nulla –, e l’apparire, nella sua verità, non attesta che l’essere esca e ritorni nel nulla>> (Essenza del nichilismo, p. 87).
 

                Che qualcosa sia nulla è impossibile; tuttavia, l’impossibile – il nulla – è posto, ne siamo cioè in qualche modo consapevoli. Sennonché, l’esserne coscienti non può voler dire che il nulla è identico al suo opposto (cioè all’essente), motivo per cui si afferma che la collocazione del nulla è la necessità stessa che l’essente si contrapponga eternamente al non essente.
                Se la totalità delle cose non si opponesse al nulla resterebbe aperta la possibilità che l’essente sia nulla. La necessità dell’essere del nulla – un essere che è dato appunto dalla coscienza che si ha del nulla – è la necessità che l’essente sia non-nulla, e includa il nulla come negato. L’essente include il suo non esser nulla, e se il nulla non fosse posto in qualche modo nella totalità esistente non si potrebbe nemmeno affermare che noi (l’essente) non siamo il nulla.
                Ponendo che l’affermazione: <<L’acqua non è l’acqua>> (<<Una qualsiasi cosa non è ciò che essa è>>) si riferisce a qualcosa di inattuabile e contraddittorio, e non potendo essere manifesto che l’acqua non è l’acqua, tuttavia tale affermazione si mostra, è cioè in qualche modo posta. <<In qualche modo>>, ossia in modo che resti affermata l’impossibilità (cioè il nulla stesso) che l’acqua non sia l’acqua. La posizione del nulla non fa sì che il nulla sia l’essente – non fa sì che l’acqua non sia l’acqua –, anzi è ciò senza di cui non sarebbe possibile affermare la contraddittorietà in cui consiste <<l’acqua che non è l’acqua>>, e quindi non sarebbe possibile nemmeno affermare la necessità che l’acqua sia l’acqua.
                Il nulla è eternamente al di fuori dell’essente, ma in quanto il nulla è posto come il non-qualcosa che si trova da sempre oltre il Tutto, il nulla stesso si trova all’interno dell’essente. Nel suo collocarsi nel Tutto, il nulla è la contraddizione di sé in quanto esistente. Quando entriamo in contraddizione, ad esempio illudendoci che qualcosa non sia eterno (e sia cioè il nulla), è il nulla stesso a vivere, non consentendo tuttavia al contraddirsi di rendere la sua materia (l’essente è nulla) un che di affermato dalla verità. Non è quest’ultima, infatti, a illudersi che l’essente non sia eterno, ed è invece la contraddizione, in quanto volontà errante, a tentare invano di appropriarsi in modo prevaricante delle cose.
                L’esistenza del nulla, stiamo osservando, non è il significar nulla da parte dell’essente, bensì è l’inevitabilità che il nulla sia necessariamente contrapposto all’essente; e per questo è contraddittorio che l’essente sia tale senza che il suo opposto (il nulla) si lasci in certo senso cogliere. A menzione di quanto detto sul senso del nulla, si dica che << […] il nulla è nulla […] non in quanto l’assoluto negativo sia qualcosa (sia pure l’assoluto negativo), ma in quanto il positivo significare del nulla è quel certo significare che esso è. O il nulla è nulla, non in quanto nulla, ma in quanto è positivo significare>> (La struttura originaria, p. 223).


 2.     IL TEMPO COME SVOLGIMENTO DELL’ETERNO

                A chiarimento di quanto detto sopra riguardo al variare degli eterni, si approfondiscano adesso le argomentazioni attraverso le quali Severino spiega in che senso e secondo quali modalità non è contraddittorio che l’eterno si muova e che il movimento sia eterno.
                Si è incominciato a dire, sopra, che gli essenti nascenti e morenti sono eterni proprio come nascenti e morenti: l’affiorante è eternamente affiorante, ciò che si dilegua è sempre identico a sé. Tutto ciò che è passato e tutto ciò che è atteso è già da sempre e definitivamente eterno: ogni incremento dell’attualità manifesta è un eterno incremento di essenti immutabili. E ogni variazione di eterni è affermata incontrovertibilmente dal destino della verità, cioè non è affatto un’illusione o una contraddizione la cui materia sia inesistente: l’eterno include eternamente lo svolgimento di se stesso.
                Orbene, nell’atto in cui un essente affiora, il suo non è un affiorare nell’essere, ma nell’apparire, inteso quest’ultimo come una regione (della totalità) in cui possono ed è necessario che si aggiungano e si tolgano – che si mostrino cioè processualmente – tutti gli essenti che son destinati ad un processo siffatto. Non è che la nascita di qualcosa sia un affacciarsi nella coscienza (io, apparire, svelamento) in quanto tale, cioè nel Tutto concretamente cosciente di sé: è la coscienza in quanto dimensione limitata e incompiuta ad accogliere gli eterni che aprono e chiudono il loro apparire.
                << […] il Tutto, di cui eternamente appare la verità, non appare tutto insieme, in ogni suo tratto, ma si inoltra nella luce dell’apparire. Vi si inoltra, rimanendo ciò che è, inalterabile e immutabile. Come il sole che, immobile, si inoltra nel cielo (Ma il Tutto solare – che include lo stesso cielo in cui si inoltra – è totalmente immutabile e non soltanto in relazione a un certo tipo di movimento, come avviene nell’astronomia eliocentrica.) Ma l’inoltrarsi nel cielo dell’apparire non è un’“apparenza” o un’“illusione trascendentale”, bensì appartiene a ciò che appare e quindi a ciò che la verità dice. Solo l’immutabile può inoltrarsi nella luce dell’apparire e ritrarsi da essa […] E solo la luce dell’apparire può posarsi sugli enti senza alterarli, giacché essa è appunto il loro apparire, il loro mostrarsi così come sono. L’inoltrarsi nell’apparire non è l’inoltrarsi nell’essere>> (Destino della necessità, p. 127).
                Nel luogo finito di luce (nel <<cerchio finito dell’apparire>>, usando l’espressione consueta di Severino) si mostra lo svilupparsi incessante degli eterni. L’interezza dell’essente processuale è l’Accadimento eterno degli eterni, che Severino chiama <<terra>>, distinguendola dal <<cielo>> (l’estensione trascendentale dell’apparire) della verità, ossia da ciò rispetto a cui si costituisce l’Accadimento.
                Qualcosa può muoversi solo in relazione all’interminabile e invariante spazio finito che consente lo svolgersi dell’Accadimento. Se il trascendentale non è posto non può essere posta alcuna variazione: se non ci fosse lo <<sfondo>> ultimo della coscienza non sarebbe possibile il farsi innanzi delle materie <<empiriche>>, cioè degli essenti che sono parti della totalità di ciò che si mostra e che include via via l’accrescimento dell’eterno. Metaforicamente, si può dire che se una stanza non stesse ferma, non sarebbe possibile asserire che un individuo entra ed esce da essa: se la stanza si muovesse, sarebbe da capire in che cosa consiste ciò rispetto a cui essa si muove, e così via; sennonché il rinvio non può essere infinito, perché altrimenti non sarebbe posta alcuna costanza essenziale, e pertanto non sarebbe posto nemmeno alcun movimento (appunto perché il movimento è tale rispetto ad un’invarianza fondamentale).
                Il Predicato di fondo di ogni cosa che si pone è l’esposizione inoscurabile dell’identità dell’essente: se un contenuto è presente, il Contenuto e cioè la forma essenziale che include ogni contenuto manifesto è la verità sempre accesa delle cose. Affinché, cioè, qualcosa come il sole o il mare sia attuale, è necessario che sia attuale sempre e ovunque l’esser qualcosa da parte di tutte le cose; il sole e il mare sono infatti qualcosa, e se l’esser qualcosa non fosse presente non potrebbero rivelarsi nemmeno quelle certe cose che vengono chiamate <<mare>> e <<sole>> (ed ogni singolo essente).
Pertanto, ogni cambiamento di essenti (cioè di eterni) è in virtù della costante apparizione dell’esser essente che ogni determinazione si trova necessariamente ed eternamente ad essere. Lo scorrimento degli eventi è possibile solo in quanto appare all’interno dell’orizzonte immutabile che vede incontrovertibilmente l’eternità di tutto ciò che scorre.  

 
                Ciò posto, si incominci a rilevare che nel momento in cui un essente nasce – ossia giunge a manifestarsi nel luogo fermo che accoglie gli avvenimenti –, in questo stesso momento inizia a svelarsi lo stesso nascere di tale essente: in questo stesso momento nasce il nascere di ciò di cui si mostra il nascere. Infatti, quando giunge a mostrarsi, ad esempio, questo sorriso (questa certa cosa che viene interpretata come <<questo sorriso>>), il suo giungere a mostrarsi (il suo nascere) non è qualcosa che si mostrava ancor prima che questo sorriso giungesse a mostrarsi, e non è nemmeno qualcosa che si mostri in seguito a questo sorriso: se il nascere di questo sorriso, di cui appare il nascere, fosse precedente o successivo a questo sorriso, ne verrebbe che questo sorriso, di cui si dice che nasce, non nasce. È cioè contraddittorio affermare che il farsi avanti di questo sorriso non si mostri nell’atto stesso in cui si manifesta questo sorriso. << […] ciò che incomincia ad apparire, quando la lampada accesa incomincia ad apparire, non è semplicemente la lampada accesa, ma la sua inclusione nel cerchio dell’apparire>> (Tautotes, p. 187), ossia <<quando questa lampada accesa incomincia ad apparire, incomincia ad apparire questo suo stesso incominciante apparire. L’incominciante apparire di questa lampada accesa ha come contenuto se medesimo>> (ibid., p. 189).
                Per questi motivi, quando qualcosa – questo sorriso – si aggiunge all’apparire attuale, ciò che effettivamente si aggiunge non è questo sorriso isolato dal suo aggiungersi, ma è appunto questo sorriso aggiungentesi, ossia l’aggiungersi di questo sorriso. E per questi stessi motivi, non è possibile obiettare che quando un essente inizia a mostrarsi, il mostrarsi di quest’essente sopravviene dal nulla. Innanzitutto, che un essente venga dal nulla è impossibile e non è qualcosa che possa manifestarsi; in secondo luogo, la inevitabile posizione dell’esistenza del divenire degli essenti è la necessità che il divenire non sia un venire dal nulla da parte di ciò che diviene, ragion per cui è corretto affermare che nemmeno la manifestazione dell’essente il cui incominciare appare può essere qualcosa che viene dal nulla.
 
                Quanto è stato appena detto sull’aggiungersi di qualcosa nell’apparire, è necessario affermarlo anche riguardo al togliersi degli essenti, o, se si preferisce, alla loro morte (avvertendo che termini come <<nascita>> e <<morte>> sono per ora intesi in un loro senso specifico e non in quello essenziale che verrà invece in chiaro nel seguito di questo capitolo). Quando qualcosa finisce di mostrarsi, ciò che incomincia a porsi non è semplicemente il qualcosa, di cui si afferma che finisce di mostrarsi, bensì incomincia a porsi anche il finire di mostrarsi di tale qualcosa. E per queste ragioni, è inevitabile che, come dicevamo sopra in relazione agli essenti che si fanno innanzi, anche il mostrarsi, di ciò di cui appare il finire di mostrarsi, finisca di mostrarsi.
                Addentrandoci ancora più a fondo nell’analisi del disvelamento fluente degli essenti, si badi bene a non interpretare l’aggiungersi e il togliersi delle cose come un’assenza assoluta di ciò che, non essendosi ancora aggiunto e togliendosi successivamente dall’apparire, è mancante. Quando qualcosa esce dal nascondimento e si affaccia nella luce, non è che, cessando di essere nascosto, incomincia ad essere manifesto, come se il transito dall’ombra alla luce fosse un che di provvisoriamente esistente: eterno è sia l’essente nascosto sia lo stesso essente in quanto affiorante nella coscienza attuale, così come è eterno lo stesso passare dell’essente dal non esser ancora entrato e al modo preciso in cui accede nell’attualità. Se è una mela ad affiorare, la mela, in quanto non ancora affiorata, è differente da sé, in quanto affiorante, e pertanto l’eternità della mela è tale sia in quanto la mela viene alla luce che in quanto si mantiene inizialmente nascosta.
                Ma, stiamo tentando di chiarire, è impossibile che qualcosa, in quanto non ancora nato, sia completamente assente dall’apparire, perché, se così fosse, tale qualcosa non sarebbe destinato ad accadere (cioè a nascere): <<desti-nato>>, ossia qualcosa il cui esser nato se ne sta eternamente presso di sé. Cioè un essente, prima di nascere, è necessariamente qualcosa di atteso, ossia qualcosa che è destino che nasca – e che quindi non si faccia più attendere; e ciò significa che qualcosa, ancor prima di nascere, è già manifesto come ciò che, appunto, deve nascere. Pertanto, non può essere vero che qualcosa, prima di aggiungersi nell’attualità, sia assolutamente assente: è relativamente assente, relativamente cioè al modo specifico in cui esso si fa innanzi nell’apparire.
                E lo stesso si dica dell’essente che, una volta sopraggiunto e rimasto per qualche tempo in luce, si ritrae dall’attualità, e ritraendosi passa. L’essente che è ormai passato è presente appunto come un passato; sì che, in un certo senso, non cessa di essere in luce nemmeno quando, in un cert'altro senso, cessa di essere in luce. D’altra parte, quando ricordiamo qualcosa, il ricordo ricorda qualcosa, non il nulla, e cioè il ricordo è tale solo in relazione al ricordato; e se il ricordato non esistesse più, il ricordo non sarebbe tale, perché appunto ricorderebbe il nulla, ossia non ricorderebbe nulla, e pertanto non sarebbe un ricordare. Così come se l’atteso non esistesse già e non si mostrasse in qualche modo nel tempo che lo attende, l’attesa non sarebbe tale perché essa può essere se stessa solo in quanto attende qualcosa (l’atteso): se l’atteso non fosse eterno, l’attesa non attenderebbe nulla, e quindi non sarebbe un’attesa.
                Quando si mostra il passare, ad esempio, della stagione invernale, contemporaneamente al comparire della stagione primaverile, l’uguaglianza (l’esser sé) in cui consiste l’<<inverno>>, non mostrandosi più nell’uguaglianza della <<primavera>>, si mostra ancora in quest’ultima come ciò che la precede: l’inverno manifesta cioè il suo esser qualcosa di perfettamente terminato. La completezza dell’inverno non consente ad esso di permanere nella stagione successiva; sennonché, stiamo osservando, ciò che non permane non è l’inverno in quanto tale, bensì l’inverno in quanto necessariamente differenziantesi dall’inverno che invece è inevitabile che permanga nel contesto che lo oltrepassa: se dell’inverno non continuasse a mostrarsi nulla nella stagione susseguente, il <<susseguente>> non sarebbe tale, perché esso è tale in relazione al <<precedente>>: il presente temporale della stagione primaverile non sarebbe se stesso, perché esso è se stesso solo rispetto all’essente passato apparso prima. Se del passato non si svelasse più nulla, non potremmo nemmeno affermarlo, perché l’affermar qualcosa è il suo svelarsi; e non potremmo nemmeno dire che qualcosa è, appunto, passato: se si afferma che il passato è passato, lo si può affermare solo in quanto questo essere del passato appare.
                << […] l’inoltrarsi della terra nel cerchio dell’apparire può apparire, solo in quanto gli insiemi di enti, che l’inoltrarsi porta progressivamente alla luce, non sono via via dimenticati (non vanno cioè uscendo via via dal cerchio dell’apparire), ma continuano ad apparire, sia pure come passati. Nella verità appare l’inoltrarsi della terra, e l’inoltrarsi appare solo in quanto appare il passato. È infatti in relazione al passato, ossia è perché il passato appare, che il sopraggiungente può apparire come tale. Se, nel sopraggiungere, ciò che già appariva – e cioè il passato – uscisse, dimenticato, dall’apparire, il sopraggiungente non potrebbe apparire come "giunto sopra" qualcosa (appunto perché questo qualcosa sarebbe assente); e non solo il sopraggiungente non potrebbe apparire come tale, ma non potrebbe apparire affatto. Giacché l’apparire dell’inoltrarsi della terra non solo esige l’apparire del passato, ma questo inoltrarsi è necessariamente un permanere: per lo meno è la permanenza assoluta dell’identità costituita dalla struttura della verità che è presente in ogni insieme di enti che entrano nel cerchio dell’apparire. Orbene, ciò che permane è sì ciò che appare ancora, ma, insieme, è ciò che appariva anche prima; il permanente è cioè presente e passato. Il sopraggiungente sopraggiunge quindi di necessità nella permanenza, ossia nell’apertura di un passato. L’essenza del divenire non può essere stabilita indipendentemente dall’essenza del passato>> (Destino della necessità, pp. 176-177).
 

                Tutto ciò che passa è eterno, ed eterno è tutto ciò che ancora non è passato; così come è eterno tutto ciò che necessariamente passerà nel futuro, perché il futuro, il suo venire ad aggiungersi e passare successivamente costituiscono una parte della totalità dell’essente, una totalità che contiene eternamente ogni sua parte. Includendo già da sempre la totalità delle sue parti, il Tutto essente è la necessità che tutto il tempo possibile (passato e futuro) sia eternamente contenuto nell’essere: è la necessità che il passato e il futuro non siano, rispettivamente, un finire nel nulla ed un emergere dal nulla.
                La nullità di qualcosa è la stessa impossibilità, cioè il nulla, nel senso che è impossibile che qualcosa si annulli o provenga dal nulla. Si manifesta che qualcosa, passando, è ormai non-qualcosa (nulla), oppure ciò che si mostra è il non mostrarsi più dell’essente che, passando, si assenta dall’attualità in quanto distinto da essa? Non può apparire che un essente è non-essente, e pertanto non può apparire che un essente, passando, diventa (è ormai) non-essente, o che un non-essente, nascendo, diventa (inizia ad essere) essente. Quando si dice che qualcosa non esiste più, su che cosa si fonda questo dire? Si fonda forse sulla manifestazione del non esser più qualcosa da parte di qualcosa? Impossibile: non può manifestarsi che qualcosa non è qualcosa. E che non possa manifestarsi la nientità dell’essente significa che la logica della verità (cioè della realtà autentica delle cose) è la stessa affermazione dell’innegabilità in cui consiste l’esser qualcosa da parte di ogni qualcosa, e cioè dell’assurdità e inattuabilità del non esser qualcosa da parte del qualcosa.
 

                Segue, da quanto si è detto sul senso del tempo, che è di notevole importanza non confondere la manifestazione particolare con quella onnipresente di qualcosa. Quando sopra si diceva che la manifestazione di un essente che affiora nell’apparire (cioè nella manifestazione trascendentale) non è separata dall’affiorare di tale essente e cioè dall’essente che affiora, si intendeva dire, innanzitutto, che il manifestarsi dell’essente che affiora si differenzia dalla manifestazione che accoglie l’essente affiorante insieme al suo stesso manifestarsi: l’interezza di ciò che si mostra e che include il cambiare degli accadimenti non cambia. Ciò che cambia è il contenuto sempre diverso che sopraggiunge via via nell’attualità, e di questo contenuto fa parte anche il legame tra quell’interezza e certi suoi contenuti. In Tautotes si dice infatti: <<L’apparire del divenire – ossia del comparire e dello scomparire dell’eterno – non diviene: non solo nel senso, che è proprio di ogni essente, che non esce dal nulla e non vi ritorna, ma nemmeno nel senso che incomincia e cessa di apparire; e proprio per questo non si trasforma da qualcosa che non include in qualcosa che include il sopraggiungente, ma è l’indiveniente apparire del sopraggiungere. Nell’indiveniente apparire viene ad apparire che all’eterno che non include il sopraggiungente si aggiunge l’eterno che lo include>> (p. 191).


 3.     CONTRADDIZIONE DELLA VERITÀ E CONTRADDIZIONE DELL’ERRORE

                Tutto è eterno. La negazione dell’eternità dell’essente è contraddizione, nel senso che è contraddittorio (= impossibile) che l’essente non sia eterno, sebbene non sia un’impossibilità (una contraddittorietà) il tentativo, eternamente fallito, di negare l’eternità dell’essente e cioè di affermare la sua nullità.
                Ciò significa che la volontà, il credere nella non-eternità delle cose è un contraddirsi che si distingue dal significato <<non-eternità delle cose>> in quanto quest’ultimo è qualcosa di irrealizzabile: esistente è il contraddirsi che vuole la nullità delle cose – e pertanto è la stessa nullità delle cose intesa appunto come il significare di un’impossibilità –; non esistente è invece che le cose siano nulla. Cioè la contraddizione, in quanto è la stessa irraggiungibilità di ciò che essa intende raggiungere, è il nulla stesso nel suo stare eternamente al di fuori dell’essente; in quanto, invece, intende raggiungere l’irraggiungibile, non è al di fuori dell’essente, ma è positivamente significante, ossia è quell’essente che è la convinzione illusoria che l’essente sia nulla.
                Ciò detto, si incominci a rilevare che mentre ogni contraddizione è tale solo nel suo essere eternamente oltrepassata (dalla verità non contraddittoria del Tutto), non ogni contraddizione è un voler affermare l’inattuabile (il nulla). Difatti, la contraddizione dell’errore – cioè della volontà di agire, di dominare e annientare le cose – è in atto solo in quanto è posto un mancamento nel Tutto cangiante, e cioè solo in relazione alla contraddizione della verità.
                Il contraddirsi della verità dell’essente non è qualcosa che abbia come materia un che di impossibile, di nullo, ma è la stessa necessità che il Tutto sia composto di parti, le quali, nel loro distinguersi dal Tutto, si mostrano in un processo. Sennonché, la parte può collocarsi solo in quanto è collocato il Tutto, di cui la parte è parte, e pertanto è necessario che anche nello svolgimento che porta da una parte a un’altra sia presente il Tutto: il Tutto, in quanto va mostrando in un fluire le sue innumerevoli differenze interne, è posto come variante, sì che il Tutto è e non è il Tutto. È il Tutto, in quanto è necessario che la posizione di qualsiasi cosa sia innanzitutto la posizione del Tutto (cioè della cosa in quanto cosa, ossia di ogni cosa); non è il Tutto, in quanto le sue parti non si mostrano tutte insieme in un unico accadimento, altrimenti non esisterebbero accadimenti, tempi, variazioni. <<Il Tutto è costante dell’originario, e quindi l’originario può apparire solo se appare il Tutto; e tuttavia il Tutto non appare, si nasconde all’originario, e insieme progressivamente si svela – proprio perché si svela progressivamente, si nasconde, e viceversa>> (La struttura originaria, p. 73).
                Ma, stiamo dicendo, la contraddizione del Tutto non è una contraddizione affermante l’impossibile: ciò che essa afferma è infatti l’inevitabile scorrimento degli eventi nella finitezza del Tutto presente. E quindi altro è la contraddizione che vuole la nullità degli essenti, e altro è la contraddizione in presenza della quale è possibile parlare di <<parte>>, <<tempo>>, <<cambiamento>>. Nel capitolo VIII (<<Il fondamento come contraddizione>>) de La struttura originaria si dice che << […] se la contraddizione C [cioè la contraddizione della verità] deve, come ogni altra contraddizione, essere tolta, ciò non significa che essa non possa realizzarsi>>, e si aggiunge che, in relazione alla contraddizione della verità, <<contraddirsi significa dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre; e non […] porre e non porre ciò che effettivamente si pone (e nemmeno – aggiungiamo ancora – intendere e non intendere di porre ciò che si intende porre)>> (p. 347).
                Tuttavia, abbiamo già osservato, la contraddizione dell’illusione si pone solo sul fondamento della contraddizione della verità. E cioè è possibile illudersi che le cose vengano e rientrino nel nulla solo in quanto si pone qualcosa che rimane assente dal contesto variante del Tutto incompiuto: se tutto fosse sempre presente, senza un luogo in cui le cose si mostrano in sequenza, l’illusione non sarebbe possibile, e non sarebbe possibile nemmeno il Tutto, perché esso è tale solo in quanto include le parti che via via si succedono nella coscienza attuale.
 

                Ebbene, che il Tutto sia in contraddizione con se stesso non può significare però che non esista una dimensione in cui il Tutto sia esente da contraddizione; abbiamo già avvertito, infatti, che ogni contraddizione (quindi anche la contraddizione della verità) è attuabile solo in quanto è oltrepassata. L’oltrepassamento della contraddizione della verità è, dunque, una necessità che compete al Tutto dell’essente.
                Si chiarisca, ora, che mentre la contraddizione dell’errore può contenere delle situazioni in cui una contraddizione è oltrepassata nel tempo – e anzi, come vedremo in seguito, è essa stessa ad essere qualcosa il cui oltrepassamento concreto è assegnato ad affacciarsi nel corso del divenire dell’eterno –, l’oltrepassamento della contraddizione della verità è invece qualcosa che deve essere già da sempre e per sempre presente affinché possa strutturarsi al suo interno la contraddizione da esso stesso oltrepassata. E poiché è impossibile che l’oltrepassamento della contraddizione si mostri totalmente nella contraddizione – altrimenti non si porrebbe differenza e quindi nemmeno implicazione e identità tra contraddizione e suo oltrepassamento –, è necessario che esso sia presente come luogo da cui provengono e in cui ritornano gli eterni divenienti.
                La dimensione, cioè, che riceve gli avvenimenti sempre diversi dell’eterno differisce dalla dimensione in cui, invece, tutto è sempre in luce. Da quest’ultima dimensione provengono le cose che nascono, e in questa stessa dimensione rientrano le cose che muoiono: gli essenti varianti sono già da sempre inscritti in tale dimensione immutabile, e si inoltrano nella dimensione che consente il mutamento degli eterni.
                In Essenza del nichilismo si dice: <<L’apparire finito non può diventare l’apparire infinito del tutto. Non può diventarlo, perché il tutto appare già infinitamente, e dunque in un apparire diverso dall’apparire attuale. L’apparire attuale è l’apparire finito dell’infinito (ossia del tutto). Se esistesse soltanto l’apparire finito (attuale o inattuale) – se cioè l’apparire finito fosse il punto di vista supremo –, esso sarebbe e insieme non sarebbe, sub eodem, la verità (l’incontrovertibile). Non sarebbe la verità, perché sarebbe un trovarsi in contraddizione (appunto in quanto posizione finita dell’infinito): poiché l’essere è incontraddittorio, la contraddizione non solo è il controvertibile, ma è ciò che deve essere tolto. E insieme sarebbe la verità, perché se un punto di vista superiore al finito non esistesse, esso sarebbe l’impossibile, l’assurdo, e se il superamento del punto di vista finito fosse l’assurdo, questo punto di vista sarebbe la verità, l’incontrovertibile. – Tutto ciò che è appare eternamente nell’apparire infinito dell’essere (che è infinito appunto perché non esista nulla che in esso non appaia). L’apparire finito – e dunque, innanzitutto, l’apparire attuale – è il luogo eterno in cui sorgono e tramontano gli eterni astri dell’essere. […] Nessun ampliamento consente all’apparire finito di diventare apparire infinito: l’apparire finito non può diventare l’essere stato da sempre l’apparire di tutto. L’immutabile diviene, in quanto, nell’apparire finito, appare e scompare. Ma, nell’apparire infinito, l’immutabile è anche l’indiventabile (ossia non sorge e non tramonta). L’apparire finito non può diventare l’indiventabile>> (p. 175).
                In altri termini, essendo tutto già da sempre realizzato – proprio perché nessun essente viene dal nulla –, ed essendo eterna anche la variazione manifesta degli eterni, è necessario che il Tutto esistente includa un cammino in cui è esso stesso ad esperire via via le parti che lo costituiscono. Questa <<inclusione>> significa che il Tutto, come eternamente in atto, si distingue in sé e da sé, in quanto è la coscienza del flusso continuo degli eterni.
                Tutto è eternamente compiuto, ma la compiutezza concreta del Tutto non potrebbe esistere se non contenesse in sé il sentiero che la mostra. Certamente, in quanto un essente è visto nel suo legame concreto con ogni altro essente, è diverso da questo stesso essente visto nella sua relazione a certi essenti; ma la consapevolezza che vede l’unione assoluta tra ogni cosa non è un apparire in cui sia assente il variare degli eterni, altrimenti questa coscienza non sarebbe assoluta, e cioè mancherebbe di qualcosa – la variazione – che pur si mostra. <<L’apparire finito è l’apparire infinito del Tutto […] e tuttavia il Tutto non appare entro il cerchio dell’apparire del destino e il suo apparire infinito si illumina nell’inconscio di questo cerchio – che dunque è circondato dall’ombra del non apparire dell’infinito illuminarsi del Tutto ed è quindi il cerchio (o l’intreccio dei cerchi) dell’apparire finito del Tutto>> (Destino della necessità, p. 594).
                Per queste ragioni, la manifestazione della totalità compiuta dell’eterno non è una dimensione paragonabile alla dimensione <<divina>> di cui parla la filosofia tradizionale (e in particolare le religioni). L’autentica compiutezza eterna dell’essente non è infatti un <<produrre>>, un <<creare>> l’incompiutezza e la mortalità delle cose cangianti: il Tutto autentico è la coscienza concreta che vede compiutamente ogni sua singola parte.
                Pertanto, ciò che si mostra nel Tutto assolutamente determinato non è qualcosa che stravolga il senso di quel che appare nel tempo, perché il tempo è la strutturazione dei tempi cioè delle fasi in cui il Tutto stesso si staglia parte dopo parte: gli essenti varianti che si mostrano in sequenza sono quegli stessi che appaiono nel Tutto compiuto. Sebbene, cioè, si ponga una distinzione tra l’essente che si mostra processualmente e lo stesso essente in quanto appare immutabilmente, questa distinzione non implica che le parti che si succedono nel finito – nel Tutto incompiuto – siano assenti dal punto di vista del Tutto compiuto: il luogo sempre acceso del Tutto concreto comprende tutto ciò che appartiene al modo imperfetto di vedere l’eterno (ossia alla manifestazione incompleta dell’essente), e contiene anche tutto ciò che dell’eterno è destinato a non appartenere a tale imperfezione. <<Noi siamo in verità totalmente noi stessi, là dove la contraddizione che originariamente ci costituisce è totalmente oltrepassata. Un , che è il più vicino dei qui. Cioè siamo il Tutto: il destino infinito. Cioè l’apparire infinito dell’infinito. Siamo quell’Uno – il Tutto eterno – che ognuno di noi, per quanto differente dagli altri, è, là dove le nostre contraddizioni, e dunque l’angoscia e l’infelicità nostra e il nostro dolore sono eternamente oltrepassati>> (La follia dell’angelo, p. 206).


 4.     AL DI LÀ DELLA MORTE E DELL’ILLUSIONE: COSCIENZA INESAURIBILE DEL TUTTO

                Un modo diverso di esplicare il contenuto del paragrafo precedente è dato dall’affermazione che la totalità illimitata e compiuta dell’essente, la quale si pone originariamente come oltrepassamento della contraddizione della verità, non può essere qualcosa che, ad un certo punto del dispiegamento dell’eterno nell’incompiuto, entri in quest’ultimo. Il Tutto, cioè, essendo ogni essente, non può accadere, nel senso che non è qualcosa che incominci a svelarsi, perché esso è ciò che comprende già da sempre in sé ogni incominciare e ogni finire. Il Tutto accade solo nel senso che, essendo esso tutti gli essenti, è anche quell’essente che è l’<<accadere>> di qualcosa; ma in quanto il Tutto è l’immutabile che include eternamente se stesso in quanto ospitante i sopraggiungenti, non può essere qualcosa che a un certo momento si faccia innanzi nell’apparire: solo una parte del Tutto può, ad un certo momento dell’incremento dell’eterno, sopraggiungere nell’attualità manifesta.
                Se il Tutto eternamente compiuto giungesse ad apparire, tutto giungerebbe ad apparire; e non potendo esistere, se questo giungere accadesse, ciò in cui l’essente affiora e ciò da cui l’affiorante proviene, l’essente proverebbe e ritornerebbe nel nulla, ossia sarebbe nulla. Ancora: se il Tutto fosse qualcosa di destinato ad affacciarsi nel futuro, la parte sarebbe annullata, e quindi sarebbero annullati anche il passato, precedente quel futuro, e il futuro stesso in cui il Tutto dovrebbe iniziare a mostrarsi; in questa situazione, il Tutto sarebbe una totalità di nulla, cioè vuota, come una forma senza contenuto, e pertanto sarebbe autocontraddittorio.
                Con questo, però, non si intende dire che il Tutto non possa venire ad aggiungersi nell’attualità in alcun modo, ma che al di là degli infiniti modi in cui il Tutto si affaccia nell’apparire è assegnato a rimanere inalterato il modo di essere assoluto che è proprio del Tutto non cangiante: ciò che non può addentrarsi nella finitezza attuale è il Tutto in quanto immediatamente posto come il fondamento non contraddicentesi a partire dal quale soltanto si può parlare di un movimento dell’eterno nella volta eterna del finito. Il Tutto incomincia; ma incomincia nel suo essere legato all’incominciare: in quanto oltrepassa eternamente l’incominciante, non incomincia (e non finisce), e include già da sempre il suo stesso incominciare.
                Si dica, a questo punto, che l’accadere del Tutto, non potendo essere l’accadere di ciò – il Tutto invariante – che è originariamente un non accadimento, ed essendo necessario che tutto ciò che accade venga lasciato indietro da nuovi essenti che a loro volta accadono, l’accadere del Tutto, stiamo dicendo, è un accadimento inestinguibile: lo svolgimento che porta alla luce gli eterni stati del Tutto è uno svolgimento che non potrà mai arrivare alla manifestazione di un ultimo accadimento. La novità degli eterni destinati a farsi innanzi nel finito è una novità infinita, costituita cioè da un numero infinito di termini (eterni). <<L’eterna e finita manifestazione dell’eterno – ossia l’eterna e finita manifestazione del destino della verità dell’essente –, in cui consiste l’essenza dell’uomo (e che è finita appunto perché non è l’apparire della totalità concreta dell’essente), si dispiega all’infinito (sì che la totalità concreta ed esaustiva dell’essente ha un contenuto infinito). Sempre nuovi spettacoli dell’eterno son destinati a mostrarsi nel cerchio dell’apparire del destino. E per nessuno degli spettacoli che siano venuti a mostrarsi è possibile l’oblio>> (La Gloria, p. 26).
                L’Accadimento include in sé una prima configurazione eterna, ma non ne include un’ultima, perché quest’ultima sarebbe, se esistesse, un essente che inizia ma che non finisce: sarebbe un giungente che non ha davanti a sé alcun altro giungente. Tutto ciò che si affaccia nella coscienza incompiuta dell’essente è qualcosa che, per non rendere contraddittorio l’essente, è necessario che sia sorpassato da qualcos’altro che a sua volta si affaccia, giacché questo prolungamento dell’eterno, che porta da un incominciante ad un altro, si estende all’infinito. << […] è impossibile che esista un essente, tale che il suo sopraggiungere nel cerchio dell’apparire del destino renda impossibile il sopraggiungere di ogni altro essente. Ossia è necessario che ogni essente che incomincia ad apparire – e quando incomincia ad apparire un certo essente incomincia ad apparire la stessa configurazione specifica della totalità di ciò che appare – sia oltrepassato da altri essenti che a loro volta incominciano ad apparire>> (ibid., p. 102).
                L’essere incluso con necessità nell’orizzonte finito della coscienza, da parte di ciò che affiora, non può essere qualcosa che giunga a svelarsi, perché la relazione tra l’orizzonte e l’affiorante non può far sì che l’affiorante, una volta sopraggiunto, si conservi definitivamente nella coscienza, perché, se così fosse, tale affiorante non sarebbe oltrepassato da un altro affiorante. Ciò posto, non è però contraddittorio che l’affiorante, una volta che sia stato concretamente oltrepassato, incominci a spettare con necessità allo spazio interminabile dell’apparire (all’orizzonte, cioè, che si mostra sempre e ovunque qualcosa si mostri).
                In altre parole, quando un essente incomincia a mostrarsi, è necessario che sia successivamente oltrepassato da un altro essente che a sua volta incomincia a mostrarsi; se un essente che incomincia non fosse oltrepassato, sarebbe qualcosa di manifesto già da sempre e per sempre, e pertanto non sarebbe un incominciante. E poiché l’incominciante è oltrepassato da un altro incominciante, l’incominciare degli eterni si amplia senza limiti, in modo tale che nessuna conformazione sopraggiungente si strutturi come insuperabile.
                Il destino dell’essente è, per questi motivi, quello di non arrestare mai il processo che mostra gli eterni, perché gli eterni sono infiniti, e sono infiniti perché stanno al fondamento di quell’assoluto che è il Tutto infinito dell’essente. Il Tutto infinito è l’infinità stessa degli eterni, che senza fine si mostrano sempre più nella loro verità originaria.
 

                La verità dell’essente è destinata a lasciarsi indietro il suo essere ostacolata dalla contraddizione dell’errore, cioè dalla volontà di potenza che vuole impadronirsi dell’essente strappandolo via dalla sua eternità. Noi crediamo (ci illudiamo, in quanto volontà di separarsi dalla verità) di agire e di essere gli <<autori>>, i <<produttori>> delle cose; ma ciò che in verità accade quando crediamo di aver raggiunto o non raggiunto i nostri scopi è essenzialmente altro da ciò che siamo convinti di constatare. Ciò che in realtà si mostra quando, ad esempio, decidiamo di alzarci dalla sedia, è che in un primo istante si pone quell’eterno che è lo stare seduto, e in un secondo istante si manifesta quell’altro eterno che è lo stare in piedi; ma non si mostra e non può apparire la <<capacità>> di alzarsi dalla sedia, perché, se ciò si mostrasse, si mostrerebbe che lo stare in piedi viene dal nulla, e che lo star seduto è caduto nel nulla – si mostrerebbe che lo star seduto, cessando di essere tale, è identico e, insieme, diverso dallo stare in piedi –, si mostrerebbe cioè l’inattuabile.
                La volontà di impossessarsi dell’essente facendolo venire e catapultandolo nel nulla è la volontà di non avere niente a che fare con la verità dell’eterno, che invece si mostra stabilmente in ogni circostanza e istante. Questa volontà errante è qualcosa che viene ad aggiungersi ad un certo punto dell’accadere degli eterni nel finito. E poiché è appunto qualcosa che si aggiunge, è necessario che, come tutto ciò che si aggiunge nell’apparire, venga oltrepassato.
                L’attuale conflitto tra questa volontà e la verità che ne vede l’illusione è destinato cioè ad essere superato dall’avvento della nascita redentrice. L’autentico incominciare a vivere è ciò che ancora non si è fatto innanzi, perché l’attuale <<vita>> è, in quanto si pone come una contesa tra verità ed errore, l’autentico senso della <<morte>>, intesa quest’ultima come la stessa volontà di appropriarsi in modo contraddittorio delle cose. L’<<inferno>> autentico è questo luogo attuale, in cui crediamo di operare e di dominare l’essente; e il <<paradiso>> non è una dimensione che attualmente non si mostri, o che si possa mostrare solo in chi ha condotto una vita buona: ognuno di noi è già in <<paradiso>>, inteso come la stessa verità degli eterni, che ad un certo punto dell’incremento dell’essente nell’apparire è assegnata ad oltrepassare per sempre la sua lotta con la contraddizione della volontà di potenza. <<Il disvelamento della Gioia [cioè del Tutto compiuto oltrepassante eternamente ogni contraddizione e quindi anche la contraddizione della sofferenza], nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra [ossia con la volontà di isolarsi dalla verità], è la Gloria [la crescita infinita della luce che mostra processualmente il Tutto eterno]>> (ibid., p. 30).
 

                Ciò che si manifesta autenticamente (cioè al di là della persuasione di sopraffare le cose) in ogni essente (dal più vago e sfumato al più imponente e maestoso) non è il <<mondo>> o il <<Pianeta Terra>> (e nemmeno l’<<universo>> così come è inteso dalla nostra cultura). Ciò che noi siamo in verità è quel Tutto già da sempre ultimato che, credendo noi di essere frammenti insignificanti dell’esistente, nemmeno immaginiamo di essere. E lo siamo in quanto includiamo noi stessi come coscienza sempreviva che accoglie all’infinito gli eterni. Il nostro esser coscienti di qualcosa è ciò che innanzitutto si mostra, al di là del nostro credere di essere <<questo>> o <<quello>>. E la coscienza di qualcosa è appunto la dimensione immutabile in cui sorgono e si spengono via via gli eterni (che poi interpretiamo come <<albero>>, <<stella>>, <<mare>>, ecc.).
                Questa coscienza sempre in luce dell’essente è, al di fuori di ogni contraddizione (quindi anche al di fuori della contraddizione della verità), l’infinito stare dell’essente in presenza del quale si può affermare che l’eterno è assegnato ad allargarsi senza limiti. Se l’illimitatezza sempre compiuta dell’essente non esistesse, gli eterni non sarebbero <<eterni>>, perché proverrebbero e finirebbero nel nulla. L’infinità della totalità dell’essente è l’eternità di infiniti essenti, destinati ad affacciarsi nell’apparire. <<Poiché è necessario che ogni essente della terra sia oltrepassato (e conservato), il sentiero della terra è “infinito”: appunto nel senso che ogni “poi” è un “prima”, cioè non esiste un ultimo “poi”. Questo sentiero è pertanto un insieme “infinito” di essenti, nel senso che nessun “numero cardinale” può indicare la numerosità degli elementi di tale insieme. Il dispiegamento infinito del sentiero della terra è la manifestazione di un tratto parziale dell’oltrepassamento eternamente compiuto della totalità della contraddizione (ossia dell’oltrepassamento nella Gioia della totalità concreta dell’essente); infatti è impossibile che per quanto il sentiero della terra si dispieghi all’infinito la totalità concreta dell’essente entri nel cerchio dell’apparire. Quindi anche la totalità dell’essente è un insieme “infinito” nel senso in cui è “infinito” il sentiero della terra, ma è un insieme infinito che include come parte questo secondo insieme infinito, (e qualsiasi altro insieme, e anzi un’infinità di altri insiemi), e che dunque è “infinito” nel senso che lascia fuori di sé il nulla, ossia non lascia alcun essente al di fuori di sé – l’infinità del Tutto>> (ibid., pp. 144-145).
 

                E l’infinità del Tutto è anche ciò senza di cui non si potrebbe nemmeno parlare di una <<pluralità>> di essenti. La coscienza incompiuta dell’eterno è incompiuta perché esperisce in relazione al tempo ciò che la stessa coscienza, in quanto compiuta, esperisce già da sempre e per sempre. E le differenze del Tutto, così come ciò che viene chiamato <<l’altro>>, si strutturano proprio in quanto l’identità di fondo della manifestazione finita dell’essente non include, una volta per tutte, la totalità infinita dell’eterno, ma la include volta per volta. Prima si mostra la verità dell’essente in relazione al fiore, e poi si mostra la stessa verità dell’essente – che permane già da sempre e definitivamente – in relazione al mare: è ununica sostanza eterna (la coscienza di esser qualcosa invece che nulla) a sperimentare (cioè a manifestare in sé) le diverse specificazioni eterne che processualmente appaiono nell’attualità.
                Tutto ciò implica che tutto ciò che si crede sia <<altro>> dalla coscienza attuale che ognuno di noi si trova ad essere è in verità la stessa coscienza dell’essente, manifestantesi in un tempo diverso (che è attuale in sé) da quello attuale (per sé). Come, ad esempio, Paolo, che ora ha trent’anni, non considera <<un altro>> il bambino che egli è stato – nonostante la differenza tra ciò che di Paolo si mostra nel presente e ciò che dello stesso Paolo si mostrava nel passato –, così ciò che la nostra cultura crede sia <<un’altra coscienza>> (Mirko) rispetto a Paolo, è in verità, da ultimo, lo stesso esser qualcosa che immutabilmente permane come sfondo di ogni svolgimento – sebbene ciò che crediamo sia <<l’altro>> non è attualmente in grado di mostrare (se può mostrarlo) di essere il segno di una coscienza diversa da quella attuale (coscienze diverse che però, abbiamo detto, sono diversità di una stessa coscienza). Nel capitolo <<Esperire l’esperienza altrui>> de La Gloria si afferma: << “Tu” (chiunque tu sia) differisci da “me”, e puoi differire anche nel modo più profondo; ma sei un’individuazione della struttura in cui consiste l’identità permanente che è sottesa alla “mia vita”>> (p. 241).
                Non c’è esperienza, pertanto, che ognuno di noi, in quanto coscienza fermamente e interminabilmente presente, non possa e non debba provare. È solo un’illusione la credenza che vuole che <<io provo soltanto quello che si mostra in un certo tempo – ad esempio “la vita di Paolo”; e non provo tutto ciò – ad es. “l’esperienza di questo animale” – che, in questo certo tempo, ritengo sia destinato ad essere altro da me>>. Tutti i piaceri e le sofferenze – tutte le esperienze – che possono mostrarsi nel Tutto son destinati a manifestarsi <<in me>>.
                <<In me>>, cioè nella coscienza sempre accesa dell’essente (ossia nel mio esser qualcosa, in quanto forma essenziale sempre in esposizione), accade tutto ciò che accade, ossia tutto ciò che è accaduto e che dovrà accadere. Sebbene non ce se ne renda ancora conto, ogni differire è il differire di un’uguaglianza essenziale, che nella sua verità assolutamente compiuta è il Tutto stesso che appare eternamente come sorgente immutabile degli eterni.
                Le parti sono parti della stessa totalità, la quale è totalità delle sue parti; è contraddittorio, pertanto, che ognuno di noi non sia la totalità eterna dell’essente, appunto perché è la totalità ad esperire le proprie parti. L’esperienza di un fiore non è semplicemente un’esperienza particolare che non abbia niente a che fare con la totalità dell’esperienza: l’esperienza particolare è tale solo in quanto è il Tutto dell’esperienza a sapere, vedere, esperire, essere quella particolarità che solo al suo interno può mostrarsi.
 

                E nel fluire che porta all’incremento indefinito degli eterni è destinata a svelarsi la liberazione finale dalla sofferenza in quanto tale. La sofferenza è, infatti, una contraddizione dell’errore, che come tale deve essere superata. La contraddizione della sofferenza sta in questo, che essendo (la sofferenza) un che di respinto (cioè di non voluto) dalla coscienza – nessuno di noi vuole soffrire –, è però inevitabile che, in un certo senso, la sofferenza sia voluta: è respinta, in quanto la coscienza rifiuta di essere nel dolore; è voluta, in quanto, sebbene sia respinta, questa non accettazione non può far sì che la sofferenza non ci sia, e pertanto, essendoci, appare come un che di voluto. Cioè noi vorremmo che la sofferenza non ci fosse mai – in questo senso non la vogliamo –, e in questa volontà si manifesta il non esserci mai della sofferenza; ma la sofferenza, nonostante il nostro respingerla, è presente – e in questo senso la vogliamo –, e pertanto è presente l’esserci della sofferenza. Questa contraddizione – l’esserci e, insieme, il non esserci della sofferenza – è la condizione secondo la quale si costituisce la sofferenza.
                Col superamento all’infinito della contraddizione della morte e del dolore, tutto ciò che è affiorato e che si è congedato – scendendo nella dimenticanza – è destinato a mostrarsi nuovamente e per sempre: nulla di ciò che ha iniziato a svelarsi è destinato al nascondimento o all’oblio definitivi.
                Questo mio attuale scrivere al computer è qualcosa di sopraggiunto; e tra qualche istante uscirà parzialmente dall’attualità dell’apparire. Ebbene, proprio questo mio attuale scrivere al computer è qualcosa che dovrà necessariamente fare ritorno nell’apparire. Può rimostrarsi assentandosi nuovamente, ma è impossibile che l’assentarsi sia conclusivo, perché è necessario che ogni essente che, dopo aver cominciato a manifestarsi, viene a mancare sia definitivamente accolto dall’apparire. L’assentarsi di qualcosa è infatti qualcosa che inizia, e pertanto è qualcosa che deve essere superato col dispiegamento dell’eterno nel finito. In Oltrepassare si dice: <<È necessario – è necessità del destino – che, col tramonto della terra isolata [cioè col superamento finale della contraddizione sopraggiungente della morte, del dolore e della volontà che li provoca], tutto ciò che di essa è rimasto nell’oblio riappaia definitivamente>> (p. 353); e ancora: <<La differenza tra ciò che appare e ciò che riappare è ineliminabile – se non altro per la ineliminabile differenza tra l’apparire e il riapparire dello stesso contenuto. Il non ripetuto non è il ripetuto. Ma questo non significa che nel riapparire della terra isolata, unito all’apparire della terra che salva [l’apparire cioè dell’affiorante che oltrepassa per sempre la volontà isolante dell’errore], qualcosa della terra isolata debba rimanere al di fuori del cerchio dell’apparire. […] Tutto ciò che la terra isolata è, apparendo nel suo non essere insieme alla terra che salva appare, nel riapparire della terra isolata, insieme alla terra che salva. Poiché tale riapparire è l’apparire insieme alla terra che salva, e poiché ciò che appare e poi provvisoriamente scompare è necessariamente diverso da sé in quanto riappare, la necessità che esso riappaia totalmente, in carne ed ossa, è la necessità che tale diversità sia costituita appunto dal riapparire dello stesso contenuto (ossia dalla diversità tra l’apparire e il riapparire) e non da una diversità in tale contenuto>> (p. 354).
                        Lungo è il cammino che porta da un dolore meno intenso ad un altro più intenso (o viceversa, oppure di uguale intensità), e questo cammino è la strada che ognuno di noi necessariamente percorre. Ma infinito è il percorso che conduce al di là della via infernale della contraddizione: mai concluso è l’inoltrarsi della redenzione che si lascia definitivamente indietro il dolore e la morte. Ci attende l’apoteosi della felicità del Tutto, in un dispiegamento di infiniti essenti che all’infinito si avviano verso le sempre più estese aperture coscienziali che l’eterno è destinato a mostrare.
                Il Tutto non contraddicentesi che già da sempre siamo è destinato a manifestarsi, con l’affacciarsi di ciò che oltrepassa concretamente l’errore e la morte, in modi sempre differenti. E ognuno di questi modi è appunto il Tutto stesso che sopraggiunge provenendo da se stesso nel suo essere assolutamente invariante. <<Noi siamo gli eterni cerchi dell’apparire della verità [siamo cioè le sempre esistenti forme che immutabilmente si mostrano come l’esser qualcosa di ogni essente], in cui sopraggiungono gli eterni; e per questo siamo destinati alla Gloria della terra [cioè all’infinito allungarsi del farsi avanti degli eterni nel finito] e ad accogliere nella luce dell’apparire la Gloria della Gioia [ossia il dispiegamento mai ultimato di ciò – la Gioia del Tutto – che include già da sempre ogni possibile affiorare di essenti], ossia ciò che in verità noi siamo all’interno del nostro essere l’inesauribilità della Gioia – che per essere inesauribile è necessario che sottragga la propria luce, che è la più luminosa, alle infinite luci [manifestazioni, coscienze] che all’infinito la illuminano>> (ibid., p. 561).


 5.     IL NICHILISMO DELL’OCCIDENTE: FILOSOFIA, POLITICA, TECNICA

                Col sopraggiungere del superamento eterno della contraddizione dell’errore, giunge ad apparire anche la lettura concreta dell’insieme determinato di essenti in cui consiste l’interpretazione che vuole l’esistenza della <<storia del Pianeta>>, o <<storia dell’uomo occidentale e orientale>>. Che il significato <<storia dell’uomo>> sia il risultato di un’interpretazione significa che, sebbene tale significato sia qualcosa la cui esistenza è innegabilmente affermata in base al suo stesso mostrarsi, è tuttavia qualcosa di voluto (creduto, interpretato – cioè qualcosa che non appare di per se stesso) che questo significato consista effettivamente in tutto ciò di cui la nostra cultura è convinta.
                        Si mostra certamente che io, in quanto coscienza attuale, includo in me stesso la volontà di identificarmi nell’<<individuo umano>> e nella <<società>>, e quindi nella <<storia dell’Occidente>>; ma non si mostra immediatamente che oltre a questa manifestazione originaria esistano quelli che io stesso interpreto come <<altri individui umani>>, oppure la <<storia dell’uomo>> in quanto differente dal modo preciso in cui si manifesta al mio interno.
                        Che esistano quei certi essenti che vengono interpretati come <<mare>>, <<stella>>, <<tavolo>>, e come la totalità di ciò che la nostra cultura è persuasa di constatare, e che quindi il <<mare>>, il <<tavolo>>, ecc. siano presenti come il contenuto di un siffatto interpretare, tutto questo si pone in modo incontrovertibile. Ma che quegli essenti siano il <<mare>>, il <<tavolo>>, ecc., siano cioè la materia che la volontà dell’uomo è convinta di vedere quando interpreta in modo non veritativo quegli essenti, questo non è qualcosa di innegabile, anzi è la stessa impossibilità, il nulla, il contraddittorio: non si manifesta che quel certo essente che chiamiamo <<mare>> sia il <<mare>>, nel modo specifico in cui viene inteso questo termine. Se il <<mare>> è, essenzialmente, qualcosa di provvisoriamente esistente, questo è quanto è impossibile che esista. E se, ancora, questa <<televisione>> è <<qualcosa di costruito, inventato dall’ingegno umano>>, anche questo non è qualcosa che possa mostrarsi, perché non si mostra che qualcosa sia <<costruito>> (sia cioè sporgente dal nulla). Tuttavia, stiamo osservando, che si creda che qualcosa sia <<costruito>> (<<prodotto>>, <<creato>>, e <<distrutto>>, <<annullato>>, <<trasformato in altro>>) si mostra, e in questo senso specifico (ma solo in questo, ossia come ciò che si crede che esista) il <<costruito>> esiste.


                L’interpretazione dominante della volontà di potenza porta alla luce dapprima il <<mito>> e le sue forme <<orientali>>, per poi lasciare la scena mondiale alla <<civiltà occidentale>>. Quest’ultima, insieme al rigoroso e decisivo potenziamento concettuale dell’antica Grecia, consiste nella consapevolezza di quell’impronta <<filosofica>> che sin dall’inizio, nei millenni mitici e orientali, rimaneva per lo più indecifrata.
                Ovverosia non è che della <<filosofia>> non esista traccia e incidenza sul mondo prima della cultura greca: la filosofia occidentale è l’estremizzazione razionale di quella mitico-orientale. L’atteggiamento filosofico apparso concretamente con i Greci consiste nel rendersi conto che al fondo della cultura mitica e orientale non appare semplicemente la volontà di dare un senso alle cose che appaiono attualmente, ma di evocare il senso innegabile della totalità degli esseri. Ciò significa che in quanto il mito e l’Oriente rimangono alla superficie dei tempi da loro attraversati, si costituiscono come il <<prefilosofico>>, cioè come la coscienza di indicare il senso complessivo delle cose, ma che non essendo cosciente di sé non è <<filosofica>>.
                Con i Greci ci si accorge, cioè, che la volontà mitico-orientale di vedere le cose come effimere, mortali e in continua trasformazione, è volontà che le cose provengano da una nullità iniziale, e che al nulla stesso siano assegnate. Con la nascita della filosofia greca viene in chiaro la contrapposizione tra ciò che è, l’essere, e il nulla: tra il Tutto e il niente. Tuttavia, stiamo dicendo, questa contrapposizione è solo superficialmente asserita, appunto perché la volontà dell’uomo è la fede nella non-eternità delle cose manifeste.
                Credere che le cose vengano e ritornino nel nulla significa affermare, nella coscienza latente di questa credenza, che le cose sono nulla, che cioè non sono ciò che esse sono. Se si crede che gli essenti non siano eterni, è necessario pensare che gli stessi, nel tempo in cui ancora non sono e in quello in cui non sono più, siano non-essenti. Il pensiero che pensa la nullità di ciò che non è un nulla è l’autentico senso del <<nichilismo>>.
                Nella tradizione occidentale, dai Greci fino a Hegel, questa credenza è supportata e accompagnata dalla volontà che, nonostante l’affermazione della temporalità e caducità delle cose del mondo, al di là di quest’ultimo sia posto l’Eterno, il <<dio>> creatore. Prima è necessario credere che le cose che vediamo non siano eterne, per poi sostenere che nell’invisibile esiste l’Eterno. Se, infatti, ci rendessimo conto che tutto questo che si mostra è eterno, non ci sarebbe alcun bisogno di innalzare un Eterno al di fuori della totalità delle cose che appaiono. Il dio della tradizione cristiano-ebraico-islamica è l’espressione razionale del superamento dei poveri <<dèi>> apparsi durante il mito.
                L’importanza della filosofia greca consiste nel suo strutturarsi come la dimensione all’interno della quale si svolgono tutte le azioni e decisioni dell’Occidente. Difatti, affinché l’arte, la politica, l’economia, la poesia, la religione, le grandi opere e istituzioni occidentali, si propongano di operare nel modo in cui di fatto operano, è necessario che esse siano collocate all’interno di un pensiero che consente un tale operare. Se ognuno di noi fosse concretamente consapevole dell’eternità originaria di tutte le cose, non apparirebbe come volontà di produrre e annientare le cose (volontà di operare), perché appunto starebbe al di là di tale volontà, constatando in carne ed ossa che le cose non sono l’effetto di un agire, umano o divino che sia.
                Con l’avvento della filosofia greca, la coscienza dell’uomo diviene coscienza di poter testimoniare ciò che sta sul mondo (cioè sul fluire annientante delle cose): lo <<stare su>> è il significato originario dell’epistéme (che comunemente viene tradotta semplicemente con <<scienza>>). Lo stare (stéme) su (epi) di noi (sul mondo) da parte della verità innegabile è il senso stesso del dio tradizionale, come un padrone prevaricante il servo. La filosofia tradizionale dell’Occidente è la volontà (impotente) di rivolgersi a ciò che, essendo manifesto, è verità incontrovertibile; e la <<verità>> come alétheia è appunto il non stare nell’ombra, ossia l’esser presente.
 

                La filosofia occidentale, imponendosi nella cultura greca, si struttura come volontà che, con l’intento di riferirsi alla verità non smentibile, oltrepassa l’orrore e le sofferenze del mondo – culminanti nella morte. La relazione tra il dolore e la verità che salva da esso è messa potentemente in luce nel pensiero di Eschilo (che usualmente viene visto come un semplice drammaturgo). La verità, in Eschilo, è vista appunto come un dominio sul divenire e un <<rimedio>> contro i pericoli della vita: è il <<giogo>> soggiogante l’angoscia provocata dall’incessante produzione e distruzione delle cose.
                Ma il pensatore più decisivo della storia occidentale è sicuramente Parmenide, il quale rende esplicito quanto vi è di implicito nei filosofi che lo precedono: con il filosofo di Elea l’epistéme del Tutto viene nominata senza residui e metafore che precedentemente avevano complicato la comprensione della verità. Metafore quali l’<<acqua>> di Talete e l’<<aria>> di Anassimene, o definizioni come l’ápeiron di Anassimandro, il pólemos di Eraclito o il <<numero>> pitagorico – tutte indicanti l’arché, ossia il luogo da cui provengono e in cui rientrano le cose cangianti –, sono tutte inadeguate ad esprimere l’identità che accomuna ogni cosa. In Parmenide, l’identità degli esseri è appunto l’<<essere>>.
                L’<<essere>> parmenideo è la sua stessa contrapposizione al nulla, e poiché tale contrapposizione è la necessità che l’essere non sia mai il nulla (non è mai stato e mai sarà il nulla), il <<divenire>> dell’essere è un’illusione, perché se l’essere divenisse sarebbe nulla: se l’essere fosse il risultato di un divenire, prima di questo risultato l’essere sarebbe nulla (cioè il nulla si trasformerebbe e quindi sarebbe l’essere), e se l’essere incominciasse ad essere diverso da sé sarebbe, anche qui, nulla. Il movimento e le molteplici differenze del mondo sono soltanto qualcosa in cui i mortali credono, ma a cui non corrisponde alcuna verità; la verità è infatti verità dell’essere, che in quanto è eternamente presso di sé si struttura come negazione del tempo e delle parti: la totalità dell’essere è senza differenze interne, e l’essere è il semplice esser qualcosa, e non questa o quella certa cosa.
                D’altra parte, quello che Parmenide non riusciva a pensare, era che l’essere, essendo eterno, non è semplicemente una totalità priva di parti varianti, ma è la totalità delle parti varianti, che in quanto esistenti sono anch’esse eterne, come ogni cosa. Questo è quanto la storia della volontà di potenza non può comprendere, perché avvolta dalla convinzione di vedere quello che non c’è, ossia l’annullamento dell’essente. <<L’essere, dunque, non è la totalità che è vuota delle determinazioni del molteplice (Parmenide), ma è la totalità delle differenze, l’area al di fuori della quale non resta nulla, ossia non resta alcunché di cui si possa dire che non è un nulla>> (Essenza del nichilismo, p. 27).
                La salvezza dell’epistéme parmenidea, insieme al superamento della concezione umana che esistano differenze e cambiamenti, viene conciliata, dopo la scuola eleatica, con la volontà di affermare in modo indiscutibile che non è soltanto l’astratto essere parmenideo ad esistere – <<astratto>>, nel senso che viene separato dal mondo –, bensì è l’essere nel suo includere tutto ciò che esiste nel tempo. Con questa conciliazione, si apre la <<Repubblica di Platone>>, volta a mostrare in modo determinato come sia necessario ultimare un <<parricidio>> salvatore del mondo.
                Sennonché, questo <<parricidio>> non riesce ad ottenere in modo autentico quanto si propone, perché il mondo viene tratto in salvo solo superficialmente, e cioè affermando che sì, le differenze e il divenire esistono, ma che esistono non essendo eterni.
                Non solo: la volontà di salvare le cose del mondo si scontra, al suo interno (cioè nella sua logica), con la volontà di salvare l’epistéme dominante il mondo, perché quest’ultima impedisce al mondo di essere tale, così come il mondo impedisce ad essa di essere l’Eterno. Il dio soffoca il mondo, non lo lascia respirare, perché l’Eterno, essendo presente eternamente ed ovunque, non consente al mondo di dispiegare le sue potenze, il suo essere una forza produttrice: se è presente l’Eterno, non c’è spazio per agire, perché l’Eterno dimora al di sopra del tempo, contenendolo già interamente. E l’affermazione dell’esistenza del mondo è la negazione dell’Eterno, perché quest’ultimo, inteso come creatore e distruttore delle cose del mondo, non riesce ad essere tale (cioè il non diveniente) appunto perché diviene da non-creatore creatore, e successivamente da non-distruttore si trasforma in distruttore, così come da creatore diventa distruttore: ponendo che le cose del mondo non sono eterne, è necessario porre un tempo in cui non ci sono e un tempo in cui ci sono, e pertanto l’Eterno creatore non è <<eterno>>, perché passa dal suo non essere in relazione al creato al suo esserlo.
 

                Ciò posto, la domanda decisiva si presenta così: <<Essendo inconciliabile l’Eterno col mondo, quale salvare dei due? e perché?>>. Questa domanda è fondamentale perché permette di scorgere che la presupposizione radicale in base a cui viene evocato l’Eterno è proprio l’esistenza del mondo, cioè del non-Eterno. E il mondo, ossia questo incessante flusso delle cose che via via si producono e si annientano, stando al fondamento dell’Eterno e della sua inconciliabilità col mondo stesso, finisce col dominare e lasciarsi definitivamente indietro ogni senso dell’Eterno – <<dio è morto>> dice Nietzsche.
L’abbandono di ogni Eterno è la liberazione del bisogno essenziale dell’uomo, una liberazione che conduce inevitabilmente al coerentizzarsi più elevato della persuasione onnipresente dell’uomo – la persuasione, cioè, che le cose non siano eterne. È più coerente, cioè, all’interno della contraddizione della volontà che vuole l’annullamento dell’essente, oltrepassare ogni forma di Eterno (ogni divinità, ogni immutabile, ogni conoscenza sacra e immodificabile), rispetto a quell’incoerenza consistente nella convivenza conflittuale tra dio e il mondo. <<L’essenza della tradizione occidentale è la persuasione che l’uomo possa scorgere la verità assoluta, definitiva, innegabile […] La verità così intesa è il limite assoluto di ogni agire. In quanto si mostra nel proprio sottosuolo, l’essenza della filosofia contemporanea è il manifestarsi dell’impossibilità della verità a cui la tradizione dell’Occidente si volge>> (Dall’Islam a Prometeo, p. 15).
                La filosofia contemporanea dell’Occidente è ciò senza di cui non sarebbe possibile ciò che oggi viene chiamato <<età della scienza e della tecnica>>. Tecnica e scienza sono, nella loro essenzialità, la volontà stessa da parte dell’uomo di oltrepassare via via gli ostacoli sopraggiungenti: sono la volontà di potenza che non intende fermarsi in un certo luogo o ad un certo limite che ne interrompa la prassi, bensì quella volontà di potere sempre di più che subordina a sé tutto ciò che vorrebbe appropriarsi, ideologicamente, solo di un certo settore della civiltà, ad esclusione di tutti gli altri. <<Ideologia>> vuol dire oggi, appunto, questa pretesa di raggiungere scopi individuali dominando gli scopi individuali altrui.
                Tecnica e scienza, profondamente intese, non semplicemente intese cioè in modo tecnicistico o scientistico (fisicalistico, macchinistico), sono l’espressione più rigorosa della volontà di dominio e di agire dell’uomo. Certo, questa rigorizzazione tecnico-scientifica è un processo ancora in atto, per via della fase transitoria che viviamo attualmente; ma è un processo destinato a lasciarsi alle spalle la tradizione e i suoi valori, e questo stesso passaggio dalla cultura passata a quella futura.
                La gente vive oggi in un periodo confusionario (transitorio appunto), proprio perché vuole, da un lato, restare in armonia con i grandi valori tradizionali, e dall’altro, cerca di cogliere il senso di questa rivoluzione tecnica superante il passato dell’Occidente. I valori e l’etica tradizionali vengono oltrepassati da quelli della tecnica, autenticamente concepita come la potenza eliminante ogni scarsità di potenza, raggiungendo pertanto quella unità tra paesi ricchi e paesi sottosviluppati che nella storia è stata solo un miraggio utopistico.
L’autentica forza globalizzante, oggi, non può essere altro che la struttura scientifico-tecnologica, perché in grado di lasciarsi indietro tutte quelle ideologie che, in quanto volontà di includere qualcosa (ad esempio il comunismo) escludendo qualcos’altro (ad esempio il cristianesimo), non potranno mai spingersi oltre la potenza non ideologica di tale struttura. È fuori luogo, pertanto, parlare di globalizzazione capitalistica, perché è vero che il capitalismo è dominante, ma lo è sulle altre ideologie, e non rispetto alla tecnica.
                Il capitalismo agisce ed intende realizzare il proprio scopo specifico, cioè l’aumento del profitto privato, avvalendosi (credendo di avvalersi) di uno strumento – la tecnica, che è lo strumento degli strumenti, e che pertanto non è un qualsiasi strumento, ma è lo strumento insostituibile – che non vuole realizzare semplicemente uno scopo specifico, ma intende incrementare senza limiti il voler realizzare scopi. Lo scontro tra capitalismo (ma, poi, tra tutte le ideologie e le forme tradizionali dell’Occidente) e tecnica si consuma in questi termini.
                L’intrapresa capitalistica, infatti, deve conservare una certa media insufficienza potenziale, perché in caso contrario le merci non sarebbero suddivise in vendibili e non vendibili, e pertanto non ci sarebbe capitalismo; e questa è, come stiamo tentando di dire, un’insufficienza che percorre la strada opposta a quella adottata dalla tecnica, che mira invece alla crescita illimitata della potenza, e cioè alla riduzione sempre più concreta di ogni insufficienza e di ogni relativa conflittualità ideologica. E ogni tentativo di soluzione dei problemi riguardanti la crisi economica prodotta dal capitalismo è destinato a fallire, per il motivo che l’essenza del capitalismo consiste proprio nell’isolamento di merce e denaro che dà vita appunto al modello capitalistico della società.
                Detto questo, il capitalismo (come ogni altra ideologia) procede verso il suo autoannullamento, proprio perché, in un modo o nell’altro, non può continuare ad assumere come fine primario l’incremento del profitto; difatti, se avesse ad assumerlo condurrebbe il Pianeta alla distruzione totale della razza umana. Nel caso in cui il capitalismo decidesse di salvare il Pianeta, il capitalismo non sarebbe più capitalismo, appunto perché esso è tale solo in quanto si propone la crescita infinita del profitto. E la salvezza del Pianeta è legata essenzialmente alla salvaguardia e all’accrescimento della potenza scientifico-tecnologica, che dunque è destinata a diventare lo scopo dell’uomo e del capitalismo stesso. <<Si profila cioè una situazione in cui il capitalismo è costretto ad assumere come scopo primario non più il profitto, ma la continua innovazione tecnologica che ha il compito di garantirlo. Insensibilmente, si sta andando verso un’epoca in cui il capitalismo, non avendo più come scopo primario il profitto, è capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è tecnocrazia, è cioè l’agire che si propone come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi, oltrepassando così la volontà “ideologica” di realizzare un certo mondo invece di un altro>> (Il declino del capitalismo, p. 62).
 
                In questo processo di conflitti ideologici e di contrasti tra ideologia e tecnica, ci si trova certamente in una situazione il limite della cui violenza resta indecifrabile; e tuttavia è impossibile andare oltre quel limite che è la stessa volontà di proteggere le risorse della Terra e di arricchire e rafforzare le capacità e le condizioni attraverso le quali la tecnica può procedere senza ostacoli insormontabili.
                Per quanto possa apparire verosimile una prossima Terza guerra mondiale, è invece da considerarsi inevitabile il ripristino di quella situazione in cui, al tempo della guerra fredda, le due superpotenze mondiali Usa e Urss si sono trovate costrette a fronteggiarsi mantenendo lo scopo primario di salvare se stesse e cioè di non distruggersi a vicenda. Oggi, con il venir meno della componente ideologica che divideva le due superpotenze, è ancora più conveniente che si arrivi ad una seconda guerra fredda, con la Russia che – sebbene non sia più alla guida delle rivendicazioni dei paesi poveri – continuerà a porre le basi affinché venga evitato un attacco fatale dei paesi arabi contro gli Usa o Israele. <<La formazione dei due opposti schieramenti nucleari [guidati da Usa e Russia], sostanzialmente equilibrati secondo le regole della Guerra fredda, allontana dunque la Terza guerra mondiale. Anche perché a nessuno dei due conviene l’esistenza di “cani sciolti” nucleari (tanto più pericolosi quanto più sciolti da quelle regole). E, insieme, i due schieramenti hanno tutta la forza che occorre per impedirne la nascita>> (Macigni e spirito di gravità, p. 19).
                Concludendo, si torni ad appurare, però, che il trionfo presente e soprattutto futuro dell’apparato scientifico-tecnologico non sarà definitivo (non sarà <<l’ultima parola>>, dice Severino), perché la scienza è espressione della nostra cultura, e cioè di quel pensiero alienante che intende le cose come un nulla. <<Persuaso di ottenere ciò che vuole, l’uomo del paradiso della tecnica si accorge alla fine di non poter ottenere la verità di tutto ciò che egli ottiene – non può ottenere la verità della propria felicità. Il suo paradiso diventa il luogo dell’angoscia più profonda. Nemmeno la tecnica può salvare l’uomo dal nulla. La verità è l’unico bene che il paradiso della tecnica non può ottenere>> (Nascere, pp. 278-279).



Ampliamento del discorso: alcuni passi innanzi de La morte e la terra, Intorno al senso del nulla, Dike e Storia, Gioia. (Fuori testo, pubblicato qui sul blog nel 2018).

Il discorso sulla diacronia delle terre isolate e relative volontà empiriche (che credono di essere il "singolo esser uomo"), all'interno dei rispettivi cerchi finiti del destino, arrischia nell'equivoco intorno a ciò che accade con la morte di tali volontà (la "mia" morte, la "tua", la "sua" ecc.), e cioè con quello che Severino chiama “l'istante senza attesa”.
Nella morte (cioè in quell'istante dove nulla sopraggiunge) di una volontà empirica appare la totalità della vita di tale volontà e della sua terra isolata, e quindi degli infiniti segni che il destino vi lascia da sempre (e che differiscono dai segni  che esso lascia negli essenti diversi da tali volontà e terra isolata).
Ma non è la volontà empirica ad attendere la propria morte e ad esser destinata alla terra che salva nella Gloria della Gioia. Chi attende è il cerchio finito nel quale tale volontà sopraggiunge, vive e muore. E' il cerchio finito a lasciarsi alle spalle la volontà empirica che lo ha invaso (e la relativa terra isolata).
Le varie terre isolate e relative volontà empiriche sopraggiungono sì in modo diacronico, una alla volta, nei rispettivi cerchi finiti, ma tale diacronia costituisce, si può dire, il “primo piano” (il piano più basso) della struttura totale del destino dell'essere.
Con la morte di ognuna di tali volontà, i rispettivi cerchi finiti del destino si trovano in relazione al “secondo piano” di quella struttura, dove i cerchi (quelli che vanno dal più lontano passato al più lontano futuro rispetto al cerchio attuale dell’originario) non devono attendere che anche le altre volontà vivano e muoiano, appunto perché, con la morte di ognuna di esse, tutti i cerchi si trovano sul piano superiore rispetto a quello (il primo) sul quale si svolge la diacronia delle terre isolate. I cerchi attendono tutti un istante, dunque.
Cioè la morte della volontà empirica del più lontano passato è un istante stando nel quale non si deve attendere che le rispettive volontà empiriche del futuro sopraggiungano nei rispettivi cerchi per poi morire anch’esse. Non si deve così attendere, appunto perché quell’istante si trova già sul piano (il secondo) che accerchia l’intero primo piano dove si svolge la diacronia delle terre isolate e delle rispettive volontà empiriche. Questo accade proprio perché non è la volontà empirica ad andare verso quell’istante, bensì è il cerchio del destino a cui essa appartiene ad assistere al compimento (morte) della volontà. (Non è Severino-individuo, quindi, a dover rincontrare sua moglie-individuo, bensì è il cerchio finito che Severino è in verità a stare in attesa della morte di quell’individuo, dopo l’istante della quale si fa innanzi la tanto attesa terra che salva, dove Severino-cerchio riabbraccia per sempre la moglie-cerchio ed ogni altro cerchio, sebbene già nell’istante-Severino appaia l’intera sua vita e quindi anche il suo rapporto con la moglie).
Ogni cerchio finito (non l’individuo che la volontà empirica crede di essere!) è destinato a veder sopraggiungere in sé tutto ciò che nella finita forma persintattica vede già da sempre (sin dallo sfondo della costellazione dei cerchi in quanto precedono quello che può essere chiamato "l'inizio dei tempi" e cioè quello che Severino chiama "il primo passo della terra") come non sopraggiungente. E’ destinato a veder sopraggiungere in sé l’istante della morte della rispettiva volontà empirica che lo ha invaso, nel quale la terra isolata si compie pur non essendo definitivamente oltrepassata. Nell’istante si compie (non tramontando ancora) il contrasto tra cerchio del destino e isolamento della terra, nonostante tale cerchio rimanga ancora rinchiuso nel contrasto (lo si precisa in Intorno al senso del nulla, pubblicato dopo La morte e la terra). (Nello sfondo di ogni cerchio appare già da sempre ogni determinazione persintattica, compresa quell'unica determinazione persintattica che, essendo anche ipo-sintattica, è la destinazione della persintassi di ogni cerchio alla propria iposintassi destinata appunto a sopraggiungere nella costellazione e che, in quanto sopraggiungente, è "terra", mentre, in quanto non-sopraggiungente, è l'iposintassi che mai potrà sopraggiungere nei cerchi finiti e che tuttavia appare eternamente nell'apparire infinito assolutamente concreto e cioè non-sopraggiungente: la coscienza finita del destino e cioè di ogni cerchio, dunque, conosce già da sempre il proprio esser destinata alla Gloria della terra e della Gioia, e quindi non si "sorprende" quando, con quell'istante, assiste al sopraggiungere della totalità della vita della volontà empirica appena morta, appunto perché, in quanto appartenente alla persintassi dello sfondo, tale totalità e l'intera totalità di ogni terra isolata appaiono già da sempre nel destino di ogni cerchio: il cerchio finito attende quell'atteso - cioè tutto il "futuro" della terra e quindi anche della "terra che salva" nella Gloria della Gioia - che, come persintatticamente non-sopraggiungentenon gli è estraneo, ossia lo conosce già da sempre, seppur in un modo astrattamente formale che tuttavia è destinato a concretarsi sempre di più, all'infinito, nel mai compiuto dispiegamento della terra nella costellazione - un mai compiuto dispiegamento che, d'altra parte, appare eternamente nel non-sopraggiungente apparire infinito già da sempre compiuto del Tutto).

In un istante, il cerchio finito vede, come sopraggiungente, tutta la vita della volontà empirica appena morta (perché, come non-sopraggiungente, la vedeva già da sempre).
Dopo l’istante, ogni cerchio finito esperisce in carne ed ossa non solo la rispettiva vita della volontà empirica e della relativa terra isolata, ma, in un unico evento, esperisce in carne ed ossa anche tutte le vite di ogni altra volontà empirica e terra isolata e rispettivo istante della morte. E nello stesso evento, esperisce la terra che salva di ogni altro cerchio finito, e quindi la Gloria della Gioia nella molteplicità infinita delle sue forme.
La terra che salva è il mai ultimato affiorare degli infiniti modi in cui la Gioia dell’apparire infinito si addentra nella costellazione dei cerchi. Ogni modo, sopraggiungendo, conserva integralmente i modi precedenti, che pertanto non scendono nell’oblio e non possono scomparire. Vengono oltre-passati rimanendo interamente nell’oltre-passante. E così via all’infinito, in un processo senza compimento (e che, si ripeta, è "senza compimento" in quanto appartenente alla costellazione dei cerchi, e non in quanto appartenente all'assoluto apparire infinito del Tutto concreto, dove la Gloria della Gioia appare già da sempre come totalmente dispiegata).

La terra che salva è, si può dire, il "terzo piano" della struttura totale dell’essere, nel senso che è su questo stesso piano che si fanno innanzi gli eterni e infiniti modi che oltrepassano conservando integralmente i precedenti.

Il "quarto piano", che poi è il piano-base di tutto lo svolgimento nella costellazione dei cerchi, è appunto l’apparire del cerchio infinito del destino, dove tutto il percorso all’infinito si mostra già da sempre, non sopraggiungendo dall’esterno bensì brillando eternamente al suo interno (con i caratteri persintattici dello sfondo infinito che oltrepassa già da sempre la finitezza dello sfondo della costellazione, in quanto, nello sfondo infinito, la persintassi appare concretamente legata all'iposintassi, mentre, in quello finito, l'iposintassi va via via sopraggiungendo e quindi non è l'iposintassi totale ma è quella sua parte che, in quanto sopraggiungente, è "terra").

Si chiarisca, infine, riguardo all'istante della morte e al subito seguente tramonto dell'isolamento della terra, che tale istante è così "seguito" relativamente a un insieme finito di cerchi, e non in relazione a tutti gli infiniti cerchi della costellazione. Infatti, Severino distingue i "cerchi del dolore" dai "cerchi della Gioia" (cfr. Storia, Gioia), nel senso che, affinché la terra isolata tramonti, è necessario che tale tramonto sopraggiunga all'interno di un cerchio intermedio, tra quelli (numerabili) delle terre isolate che sopraggiungono precedentemente alla terra isolata di quel cerchio e quelli (di numero infinito) delle terre isolate che, sopraggiungendo dopo quelle prime terre isolate (tranne quella, appunto, del cerchio intermedio), sopraggiungono nell'evento stesso (e non "una alla volta nei rispettivi cerchi" come le precedenti) in cui vengono portate al tramonto col sopraggiungere del tramonto, in quel cerchio intermedio, dell'intera terra isolata e non soltanto di quella appartenente a tale cerchio.
Ciò significa che, mentre nei primi cerchi (quelli del "dolore", che accolgono le rispettive terre isolate sopraggiungenti prima di quella del cerchio intermedio e quindi di tutte le infinite altre) sopraggiungono delle terre isolate (e rispettive volontà empiriche e gli stessi istanti della loro morte) non ancora tramontate, negli infiniti altri cerchi (quelli della "Gioia"), compreso quello intermedio, sopraggiungono delle terre isolate (e rispettive volontà empiriche ecc.) già tramontate, cioè che appaiono insieme al loro stesso tramonto, che porta al tramonto, in questo stesso unico evento (che è lo stesso di quel cerchio intermedio, e che non è altro che il "terzo piano" della struttura del destino), anche le (finite) terre isolate dei "cerchi del dolore" (le quali, tramontando, sono però precedute, a differenza di quelle dei "cerchi della Gioia", da un tempo in cui apparivano, nel "primo piano", in assenza del loro tramonto). 
Cioè le terre isolate dei "cerchi della Gioia" (compreso quello intermedio dove sopraggiunge il tramonto che oltre-passa tutte le infinite terre isolate, incluse quelle dei "cerchi del dolore", e che quindi, sopraggiungendo a partire da quello intermedio, sopraggiunge, in questa stessa partenza e non in un secondo momento, in tutti gli infiniti altri cerchi), apparendo insieme sia all'istante della morte della loro volontà empirica, sia al loro tramonto, sopraggiungono, entrando cioè nella costellazione dei cerchi, direttamente sul "terzo piano" (quello della "terra che salva", appunto). Le terre isolate dei "cerchi del dolore", invece, trascorrono un certo tempo al "primo piano" (dove il loro tramonto non sopraggiunge), e un istante (quello della morte delle rispettive volontà empiriche) al "secondo piano" (dove, anche qui, pur sopraggiungendo il compimento della terra isolata, non sopraggiunge il suo tramonto, destinato a sopraggiungere subito dopo quell'istante, al "terzo piano").
Se così non fosse, dice Severino, il tramonto della terra isolata sarebbe impossibile, perché, dato che sia i cerchi che le rispettive terre isolate sono infiniti (non sono numerabili), e dato quindi che non può essere percorso un sentiero infinito affinché tramontino tutte le infinite terre isolate, è necessario che tale tramonto sopraggiunga nella costellazione dopo un tratto finito appartenente a quel sentiero, un tratto che corrisponde appunto a quello dei "cerchi del dolore", dopo il quale sopraggiungono, tutte insieme, le terre isolate dei "cerchi della Gioia" e quindi anche di quello intermedio, insieme, appunto, al loro tramonto (che oltrepassa, al "terzo piano", anche le terre isolate dei "cerchi del dolore").

3 commenti:

  1. Non ho letto tutto, ma intanto comincio a confutare questo passaggio:
    <>), il suo giungere a mostrarsi (il suo nascere) non è qualcosa che si mostrava ancor prima che questo sorriso giungesse a mostrarsi, e non è nemmeno qualcosa che si mostri in seguito a questo sorriso: se il nascere di questo sorriso, di cui appare il nascere, fosse precedente o successivo a questo sorriso, ne verrebbe che questo sorriso, di cui si dice che nasce, non nasce.>>

    No, non è l'ESSENTE a mostrarsi in quanto sorriso, perché il sorriso è solo un CONCETTO, che nella realtà dei sensi (il vedere quel sorriso) non è catturabile.
    Quel sorriso varia microscopicamente di continuo, a livello dei sensi, quindi Severino definisce "essente" NON ciò che davvero sta mostrando AI SENSI (che non è definibile SE NON RIDUCENDOLO), bensì solo un concetto, che riduce quell'apparire definendolo "sorriso".
    MA il sorriso NON E' separabile da tutto il resto, nella realtà sensoriale, ma lo può essere solo concettualmente.
    Quindi si dovrebbe fare una bella distinzione tra "essente" in quanto apparire sensoriale, o in quanto I SENSI STESSI (il vedere è sempre vedere, il tatto è sempre il tatto e così via) e l'apparire inteso come un fenomeno INTERPRETATIVO all'interno dei sensi, che non ha niente a che vedere con la sensorialità che si sta manifestando, perché, ripeto, i sensi son sempre se stessi, quello che appare ai sensi appare sempre in movimento, e definibile solo attraverso una riduzione concettuale.
    Appena intendo, colgo, QUEL sorriso, esso già non c'è più, nella realtà sensoriale!


    Se avrò tempo, confuterò anche altri passaggi, e finirò di leggere l'articolo.
    Intanto, GRAZIE DI AVERLO POSTATO!

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  2. Quindi Severino non può chiamare ESSENTE, ciò che è solo un'IDEA, che NON SI E' MAI MOSTRATA AI SENSI.
    Si è mostrata alla mente, sì, in questo senso è essente in quanto tale.
    Quindi sono essenti le idee, i concetti, e basta.
    LA realtà sensoriale non HA essenti, non mostra essenti, ma E' essente!

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  3. Grazie dei commenti. Mi sa di averti già risposto a queste obiezioni o aporie. Se non fossi tu la persona alla quale ho inviato la replica, ti invito a farmelo sapere. Perdonami se non riscrivo la risposta, ma il tempo materiale a disposizione è "scarsità di spazio" (non se mi spiego), ma se sarà necessario ti risponderò. A presto e grazie ancora!

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