<<Non esiste cosa che
non sia l’Amore, non esiste esperienza che non sia un gesto d’Amore>>.
Con queste parole esordisce l’Autore nell'opera che segue La struttura concreta dell’infinito, ove si compiono i passi
decisivi verso il superamento dell’immensa opera di Emanuele Severino.
L’Amore di cui parla
Pellegrino non è un astratto sentimentalismo. Esso rappresenta la chiusura
ontologica del discorso sul Tutto. Il legame
che unisce gli essenti, che essi credano di volerlo o meno, è l’Amore. La
necessità dell’accadimento delle cose implica, però, che questo Amore sia anche
tragico, perché alla sua essenza è legato il manifestarsi del dolore.
Nel caos esistenziale del
nostro tempo avvertiamo dentro di noi una sensazione di infinita impotenza di
fronte alla tragicità degli avvenimenti. Ci consideriamo esseri finiti privi di
un valore reale nel mondo. Ma ognuno di noi, nel proprio profondo, è l’unica
verità eterna dell’infinito, nei modi finiti e temporali in cui essa è sé stessa.
Ogni avvenimento è movimento
del Tutto, la scintilla divina avvolge ogni singolo apparire. E tuttavia il Tutto non è il <<grande
inquisitore>> che punisce o premia a seconda dei comportamenti terreni.
La vera divinità consiste nella coscienza di ognuno di noi – noi, destinati all’ultimo
tratto del cammino dell’infinito, giacché (come dice l’Autore) <<osserviamo dall’alto, senza vertigini, l’intero percorso che ci ha
portato fino a quel punto>>.
Il massimo dolore è un passo
verso il <<prevalere>> dell’Amore come legame infinito. Un
prevalere definitivo che, nel discorso dell’Autore, non si struttura come
speranza, bensì come incontraddittoria necessità.
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