mercoledì 11 luglio 2012

"Del tragico Amore": Prefazione



Questo saggio si qualifica come un’altra serie di studi intorno al significato veritativo dell’essere, la prima raccolta dei quali è apparsa sotto il nome di Struttura concreta dell’infinito (con sottotitolo: negare la «storia dell’uomo», oltrepassando il pensiero di Severino); quest’altro insieme di studi è, pertanto, il naturale prolungamento di quella prima raccolta, un prolungamento strettamente legato a quest’ultima soprattutto perché, in essa, rimangono impliciti (esplicitati, ora, nel Tragico Amore) alcuni risultati centrali del discorso sul vero significato dell’infinito (cioè sull’autentico «senso della vita»). Tale implicitezza in effetti, presente nel testo de La struttura concreta dell’infinito, non ha consentito, al linguaggio di quel testo, di risolvere alcuni cruciali e determinati problemi filosofici.
Del tragico Amore, oltre a contenere importanti chiarimenti e sviluppi intorno ai risultati già accertati, analizzati e fondati in quel testo, si propone appunto di risolvere tutti quei problemi filosofici, legati al significato complesso (compiuto e specifico, nei limiti attuali che avvolgono questo linguaggio):

a) della morte (intesa sia come lo stesso divenire che porta dalla nascita alla cessazione di un essente, cioè di un eterno, sia come una cessazione siffatta) – e quindi anche di ciò che affiora prima della nascita di ogni vita (ad esclusione della nascita di ciò che, in questo nuovo libro, viene chiamato «la vita dell’Inizio», la quale vita non è preceduta da alcunché, appunto perché essa è la prima, già da sempre e definitivamente strutturata in sé stessa nel suo esser la vita infinita del concreto apparire del Tutto che ogni essente in verità è);
b) della felicità (ovverosia dell’Amore, del bene, della quiete, della pace, della serenità);
c) del dolore (cioè della tragicità dei modi in cui la totalità dell’essere si contrappone eternamente al niente assoluto);
d) dell’intera configurazione di ogni passato e di ogni futuro – e pertanto dell’attendere annunciando (cioè prevedendo) o non annunciando l’atteso, e del passare rimembrando (cioè ricordando) o dimenticando il passato;
e) del ri-affiorare (ossia del vero significato del «risorgere») degli eventi (vite, essenti eterni) di ciò che, in questo saggio, viene chiamato «la Prima Volta» (ovvero il prevalere della contraddizione in cui consiste la finitezza delle differenze – tale «riaffiorare» essendo quello che, nel Tragico Amore, viene chiamato «il Ritorno», tra il percorso della Prima Volta e quello del Ritorno ponendosi, invece, «il Passaggio “centrale”»), un riaffiorare che, giungendo al culmine del cammino finito della coscienza eterna del Tutto infinito, conduce a quello che ne La struttura concreta dell’infinito viene detto «ultimo evento», e che in questo nuovo volume viene chiamato «la vita dell’Ultimo» – una vita che, essendo l’ultima, non può essere seguita da nessun’altra (cioè da nessun altro eterno incominciante).


La struttura concreta della coscienza infinita dell’essere comprende sé stessa come una pluralità numerabile (finita, limitata) di tratti (tempi, individuazioni), e cioè tale coscienza (che ognuno di noi in verità è, anche in questo preciso momento della «nostra vita», e nella completezza del passato e del futuro) è già da sempre ed eternamente sé stessa nel modo diacronico in cui essa appare, dapprima (nel cammino affannoso e laborioso della Prima Volta), come l’affiorare di un certo numero di essenti (vite e rispettivi «passaggi», i quali portano da una vita all’altra; in questo senso, possiamo quindi parlare di «reincarnazione», «vite precedenti e successive» – la morte delle quali vite della Prima Volta essendo, in ogni caso, come un provvisorio «sospiro di sollievo», cfr. parte seconda, cap. 3°, par. 3), e poi, come l’avvento dell’eterno Passaggio che conduce al riaffiorare (cioè alla via del Ritorno) di quegli stessi essenti (fino alla vita dell’Ultimo, che altro non è che il riaffiorare dell’ultima vita della Prima Volta – la morte della vita dell’Ultimo essendo essa stessa inevitabile, immutabile, sì che tale vita non è e non conduce ad alcuna «scena fissa» in cui la coscienza del Tutto concreto sia un prolungamento, «all’infinito», del suo eterno esser cosciente di sé stessa).
Dapprima, prevale l’erranza del dolore in cui consiste ogni parte (dissomiglianza, individuazione, tempo, luogo) – giacché la lettura dei segni, cioè delle tracce che l’«altrui coscienza» lascia nella «propria», rimane enigmatica e deviante (e gli stessi «propri» modi di manifestarsi risultano alquanto imperscrutabili) –, ed in seguito, prevale la verità dell’Amore in cui consistono gli stessi essenti eterni che, nel trionfo di quell’erranza (cioè nel percorso della Prima Volta), si angosciano e si affliggono: feriscono «sé stessi» e gli «altri» – sì che, nel sentiero del Ritorno (e anzi già nel Passaggio), tutte le tracce appaiono come esaustivamente decifrate, il futuro è compiutamente annunciato e il passato totalmente ricordato.
Tutto ciò esiste in eterno (l’espressione «in eterno» essendo un pleonasmo che ha il compito di delucidare intorno al vero significato dell’«esistere»: «eternità» ed «essere» sono semanticamente identici – un’identità semantica che si estende, in un senso, ad ogni altro termine, e in un altro senso, a certi altri termini diversi da certi altri ancora, a loro volta semanticamente identici tra di loro; su tutto ciò si discorre ampiamente ne La struttura concreta dell’infinito, e viene poi ripreso nel Tragico Amore). Ogni evento (di ogni passato, presente e futuro) si manifesta in sé stesso già da sempre e definitivamente, nell’eternità (infinità), cioè non essendo mai il niente, ossia non provenendo e non rientrando nel niente. Noi non siamo il nulla, non lo siamo mai stati e mai lo saremo. Il futuro e il passato (tutte le esperienze altrui) risiedono fermamente nelle rispettive stanze di una casa che le include già da sempre ed eternamente (cfr. parte prima, cap. 1°, par. 1). Tutto appare in eterno, nel modo temporale (cioè nascendo, non venendo dal nulla, e morendo, non finendo nel nulla) che compete ad ogni essente.


Il libro è suddiviso in tre «parti» – la «Parte prima» essendo preceduta da un «Prologo» (un «dialogo tra me e me»), ripreso e completato, subito dopo la «Parte terza», nell’«Epilogo», seguito a sua volta dalle «Conclusioni» e dal «Glossario» (al quale si fa riferimento più volte nel corso di quest’opera, poiché in esso sono già indicati i rinvii necessari per la decifrazione adeguata della medesima opera e de La struttura concreta dell’infinito).
La «Parte prima» è sostanzialmente un’«Introduzione» che presenta, allestisce e prepara il terreno sul quale poggia il centro del discorso di questo nuovo saggio. Nel capitolo 1°, di tale «Parte prima», vengono richiamati (in generale e in vari punti specifici) e approfonditi i tratti di fondo del linguaggio de La struttura concreta dell’infinito: la testimonianza della verità, il significato della «filosofia», le uguaglianze e distinzioni semantiche tra i termini, la trascendenza e il divenire, il numero finito degli eventi (dal primo all’ultimo), il vero significato dell’«altro», l’errare e l’impossibilità della «contraddizione C» (questa ultima essendo sostenuta negli scritti di Severino). Nel capitolo 2°, invece, ci si accinge a parlare dei problemi risolti in questo nuovo libro: il percorso finito della Prima Volta e quello altrettanto finito del Ritorno, l’Amore autentico, la morte, il senso della «storia dell’uomo»; e viene anche ripresa e rapportata ai nuovi temi la metafora del «lettore» che legge le «pagine del libro» (una metafora che viene adottata all’inizio dell’«Introduzione» de La struttura concreta dell’infinito).
Tale «Parte prima» viene poi conclusa con ben cinque «Appendici (all’Introduzione)»: la prima è dedicata ad una breve sintesi acritica de La morte e la terra (il saggio probabilmente conclusivo della pars construens del discorso filosofico di Severino); nella seconda, invece, viene riportata un’intervista che ho rilasciato al giovane filosofo Alessandro Bagnato; nella terza («Tra il mio linguaggio filosofico e quello di Severino») si può trovare un lungo dibattito tra me e Roberto Fiaschi (il quale conosce molto bene le opere severiniane ed avendo letto, anche, il mio saggio La struttura concreta dell’infinito); nella quarta e nella quinta, infine, vengono riportati due confronti che ho tenuto con Pietro De Luigi (un altro studioso del discorso di Severino e del mio): il primo confronto è sulla tematica filosofica del «segno», mentre il secondo – «La “classe”, l’“inclusione”, la “parte”: tra Gödel, Strumia e Russell (e altri ancora)» – si riferisce al rapporto tra la «logica simbolica» e le mie tesi sui concetti di «classe», «inclusione», «totalità», «relazione», «parte», etc.
Nella «Parte seconda», poi, si mostra l’analisi dettagliata e minuziosa del risolvimento dei problemi lasciati in sospeso ne La struttura concreta dell’infinito. Nel capitolo 1°, di tale parte, appaiono ulteriori precisazioni sul senso del linguaggio; nel capitolo 2° ci si sofferma sul rinvio finito dei «modi» in cui la vita infinita della coscienza sempreviva dell’essere si contrappone eternamente al nulla; il capitolo 3° è dedicato soprattutto alla sofferenza delle vite (e di ciò che sopraggiunge con la loro morte, nei vari «passaggi») appartenenti al cammino finito della Prima Volta (dall’Inizio all’ultima configurazione che precede il Passaggio); infine, nel capitolo 4° viene approfondita l’esplicazione del fondamento per il quale si afferma l’esistenza del Passaggio e della via del Ritorno, chiarendo il senso autentico e profondo dell’Amore e del modo tragico di vivere la vita.
La «Parte terza» è costituita, invece, da una ripresa della mia critica rivolta al discorso filosofico di Severino, mettendo a confronto i nuovi risultati di questo saggio con La morte e la terra. Pertanto, viene spiegato analiticamente il motivo per cui è impossibile l’esistenza di ciò che Severino chiama, in quella sua opera, l’«istante senza attesa» in cui «non sopraggiunge alcunché», l’«istante», cioè, che (sempre secondo il linguaggio filosofico di Severino) viene ad aggiungersi «con la morte della volontà empirica». Si parla anche, in tale «Parte terza», del rapporto tra «l’Io del destino» e «l’io dell’isolamento»; e, ancora, della «contraddizione C», del «sopraggiungente inoltrepassabile», dell’«apparire infinito», della «Gloria della Gioia», del senso autentico del «risorgere» e del «reincarnarsi», e di altro ancora.


Ognuno di noi (io per primo) – anche chi evita di riconoscerlo (di fronte a quella che viene considerata «la propria vita» o davanti a coloro che si crede siano «gli altri», estranei rispetto a ciò che nella propria esperienza viene provato, sentito, pensato), attraverso maschere di ipocrisia, cesellate da infingimenti, conformismi, convenzionalismi, cortine, qualunquismi, mode, perbenismi, assuefazioni, usanze, costumi, dipendenze – chiunque, si sta dicendo, si trova in enormi difficoltà identitarie e in condizioni più o meno estreme di disagio, dovute al modo in cui ci si sente per lo più avvolti e dominati dall’incapacità di cogliere il senso autentico delle cose (ed è questo senso stesso che, al suo interno, non scorge la verità di sé stesso: noi siamo, infatti, il senso autentico della vita il quale, per un certo tempo – quello della Prima Volta –, è assoggettato alla propria inconsapevolezza intorno a ciò che esso già da sempre è).
Tuttavia, si sta chiarendo, ognuno di noi è (ancora, fino all’ultima vita del tracciato del prevalere della contraddizione del divenire) dominato da tale incapacità: noi sappiamo chi siamo (perché il «sapere» è l’«essere» concretamente inteso: «essere» e «sapere di essere» significano lo stesso); sennonché il sapere (il conoscersi: l’autocoscienza della totalità complessa dell’Uno indivisibile) – includendo sé stesso come un non sapere (ossia come ciò che, già ne La struttura concreta dell’infinito, viene chiamato «il nulla come parzialmente affermato»: il «non», incluso dalla forma concretamente assoluta dell’«essere»: il non esser questo mare, da parte di quelle montagne: il diversificarsi, il differire delle differenze, cioè dei tempi, luoghi dell’apparire infinito dell’essente eterno: il contraddirsi, cioè il non accorgersi di sapere, ossia di apparire, ossia di esser l’eterno), e quindi essendo, tale sapere, l’uguaglianza concreta della totalità che lega già da sempre (secondo una modalità processuale e cioè tragica, data la necessità del nascere e del morire) i suoi due tratti essenziali costituiti, l’uno, dal prevalere delle individuazioni finite (ovverosia dal tracciato della Prima Volta), e l’altro, dal prevalere dell’essenza concreta (ossia dalla via del Ritorno) –, il sapere, si sta appurando, resta ai margini, nell’eterno cammino limitato della Prima Volta, rispetto alla preminenza e centralità del modo (in cui consiste ciò che viene detto «tragicità della vita») in cui ognuno di noi (ogni essente: la struttura concreta del fondamento eterno) è cosciente di sé (ossia è sé stesso contrapponendosi già da sempre e infinitamente al nulla).
Dopodiché, cioè con la morte dell’ultima esperienza di quel cammino, il sapere (il vero Amore: l’amare autenticamente sé stessi, ossia tutto ciò che appartiene all’essente) incomincia a prendere notevolmente spicco, giacché con tale supremazia ci si rende sempre più conto di essere la «scala perfetta» della struttura concreta dell’essente (cfr. parte seconda, cap. 3°, par. 5) – della struttura concreta, cioè, della coscienza che esperisce sé stessa nella tragicità (dapprima, cupa ed energica, e in seguito, sempre meno intensa) del modo in cui, tale coscienza infinita, procede dal gradino più basso a quello più alto di quella scala (tenendo fermo che una scala siffatta è, nel suo insieme concreto, sia una «salita» che una «discesa»; e restando ancora problematico, per il linguaggio che si sta portando avanti da La struttura concreta dell’infinito a Del tragico Amore, quali analogie o addirittura identità semantiche possano costituirsi tra tale linguaggio e l’eccelso discorso idealistico di Hegel, lasciando aperta la possibilità che anche altri discorsi filosofici possano essere reinterpretati alla luce di quel linguaggio, cfr. parte prima, cap. 1°, par. 2).
La felicità autentica consiste in ogni singolo istante della nostra infinita esperienza («infinita», non nel senso che il percorso sul quale camminiamo non possa giungere ad un’ultima configurazione definitiva – essendo necessario, invece, che si pervenga alla vita dell’Ultimo –, ma semplicemente nel senso che, quell’esperienza, esiste – l’«esistere» essendo l’«esperienza» stessa di cui si dice che esiste –, cioè si mostra in eterno: non proviene e non finisce nel nulla – anche se, in questo caso eccezionale, il termine «semplicemente» è da intendere come la complessità semantica del Tutto comprendente ogni semplicità semantica). La felicità non è una situazione in cui non si patisca il dolore, perché una tale situazione è impossibile, data la necessità eterna che ogni coscienza sia il Tutto (la felicità autentica, appunto) cioè anche le sue parti (il patimento del dolore).
Ciò significa propriamente che noi, essendo sia legati (dall’Amore e nell’Amore che noi stessi siamo, l’«Amore» illuminandosi appunto come il «legame» che unisce il passato al futuro e ogni essente ad ogni altro essente) – cioè in relazione, nell’uguaglianza infinita dell’Uno indivisibile che ogni cosa è –, sia distinti l’uno dall’altro (tale distinzione essendo la stessa distinzione tra il «legame» e la «distinzione», ovverosia tra la totalità complessa della verità dell’Amore e le parti numerabili della contraddizione del dolore, fermo restando che gli essenti immutabili – A, B, C… – che strutturano il Tutto infinito sono identici a quelli in cui consistono le sue parti finite, un’identità includente appunto sé medesima come un distinguersi tra A, B, C…), siamo già da sempre e definitivamente opposti al niente proprio nel modo in cui l’Amore, ad un certo punto del suo cammino (precisamente in quel punto che è il Passaggio affiorante con la morte dell’ultima individuazione del percorso della Prima Volta), va concretamente verso quell’altro punto (il primo passo della via finita del Ritorno, che si affaccia con la morte del Passaggio) che si lascia definitivamente indietro il prevalere del dolore (cioè della contraddizione del tempo).
Solo in questo senso, autentico, si può ed è necessario affermare che la felicità si libera uscendo dai labirinti e prigioni che, nel governo dell’errore (cioè nel percorso finito della Prima Volta), la trattengono prevalentemente nel dolore (nella tragedia, nella morte, nel limite).
Il dolore continua pertanto ad essere patito anche quando, nella via del Ritorno, trionfa la felicità dell’Amore infinito della struttura concreta dell’essente eterno. In tale Ritorno, l’intensità, secondo la quale si manifesta il dolore, diminuisce considerevolmente, e cioè l’intensità, secondo la quale l’acquietarsi, felicitarsi e amarsi son presenti, comincia ad amplificarsi notevolmente ed in contesti sempre più ampi e complessi, fino al coronamento conclusivo dell’ultima appagante esperienza (quella dell’Ultimo).
Tuttavia, stiamo appurando, non per cotanta gioia e immenso splendore il dolore vien meno: avvicinarsi a quel coronamento, cioè all’esito finale del cammino finito dell’infinito, significa infatti avvicinarsi, anche, al tragico modo in cui ci si sente colmi di gioia e sapienza. In effetti, pur non finendo nel nulla, il viaggio dell’infinito finisce – in eterno, così come è nell’eternità che esso, infinito fondamento del Tutto, incomincia, sorge, affiora, per poi permanere, in modo temporale e sempre in eterno, lungo il sentiero della Prima Volta, con l’eterna morte della quale sopravviene il Passaggio eterno che conduce all’eterna strada del Ritorno (avvertendo, qui, nonostante sia già perspicuo da quanto si è detto, che il «Ritorno» di cui si sta parlando non ha nulla a che vedere con l’«eterno ritorno dell’uguale» a cui si riferiscono i pitagorici, gli stoici e soprattutto il linguaggio filosofico di Nietzsche; cfr. La struttura concreta dell’infinito, cap. VII, par. 5).


Siamo felici e ci amiamo per un motivo (su un fondamento) essenzialmente diverso da quello per cui si dice solitamente, nell’illusione di non essere l’eterno apparire del Tutto, che qualcuno è felice o infelice, ama o non ama (sé stesso, qualcosa o qualcun altro). «Essenzialmente» diverso, nel senso che ciò che l’«individuazione» (che è la medesima «essenza» in quanto, per l’appunto, si individua, ossia in quanto è un temporalizzarsi, particolarizzarsi, specificarsi) si illude che esista (l’«individuazione» essendo appunto l’«illudersi», il «contraddirsi», l’«errare»), questo «ciò», al di fuori del suo esser lo stesso illudersi (incluso in sé stesso in quanto essenza che lo oltrepassa già da sempre e definitivamente), non esiste, è il niente assoluto (il non-qualcosa, opposto eternamente alla totalità concreta dell’essere, cioè dell’essenza infinita).
Vogliamo essere felici, amarci, evitare il dolore (vogliamo renderci sempre più conto di quel che siamo). Tuttavia, se vogliamo tutto ciò per mezzo (servendoci) o sfruttando (approfittando) delle situazioni «a nostro favore», escludendo la felicità altrui, allora è chiaro che questa volontà vuole e si illude di raggiungere l’irraggiungibile (l’impossibile, il contraddittorio, il nulla).
Il «controllo delle emozioni» e la «resistenza alle tentazioni» sono il modo in cui cerchiamo, senza grandi successi (e ciò avviene fino all’ultima esperienza del prevalere della contraddizione del dolore), di privilegiare quel carattere autentico del bene e della volontà di amare che viene designato per lo più con espressioni quali «bontà d’animo», «umiltà», «sincerità», «rispetto», «modestia», «discrezione», «altruismo», «tolleranza», «clemenza», «indulgenza», «lealtà», «onestà», «buona fede», «genuinità».
Ciò che chiamiamo «esteriorità» prevale ancora (e fino alla vita conclusiva del cammino della Prima Volta) su ciò che chiamiamo «interiorità». Le «persone» vengono «usate», ovverossia ci si serve di esse per la realizzazione dei «propri scopi» («scopi personali», raggiungendo i quali si crede di aver trovato un’isola felice della propria profonda ignoranza, quest’ultima essendo, in verità, il mondo infernale in cui tutti ci troviamo inevitabilmente – fermo restando che noi siamo l’oltrepassamento eterno di quest’inferno, un oltrepassamento che è presente sempre e ovunque, e quindi anche qui, adesso, benché sia destinato a risplendere in modo sempre più intenso già nel Passaggio e ancor di più nel Ritorno), anche quando ci si convince di far del bene all’altro (creando «famiglie», «gruppi sociali», «associazioni», «istituti»).
«Sessualità», «piaceri fisici», «immaginazioni e proiezioni mentali», «cura del corpo», «ambizioni sociali»: tutti modi, questi, in cui, nel governo (prevalere) della «corporeità» (ossia della contraddizione del dissomigliarsi), si vive «tra» gli altri (giacché questo è il significato essenziale del «tra-dire»), mettendo in secondo piano lo «stare insieme» all’altro.
Si badi bene, però, a non confondere quanto si sta affermando, intorno a queste umane «abitudini», con la persuasione (priva di verità incontrovertibile) che esse si collochino su uno sfondo semplicemente «negativo»: tutto è, infatti, «positivo» (nel suo significato incontrovertibile) cioè anche «negativo».
Il vero Amore (che ogni essente è) ama ogni singola esperienza della «nostra vita», ama (= mostra, è) sé stesso. La facilità e superficialità con cui oggi, nell’«età contemporanea», si parla dell’«amore» (soprattutto in modo mieloso, smanceroso, melenso, lezioso), è lo specchio del momento transitorio in cui – dando addio alle tecniche premature e alle barbarie del grande passato dell’Occidente, ed aspettando la maturazione di un’epoca fatta di perfezionismi a non finire – viene tendenzialmente perso di vista il senso «forte» del modo in cui si è arrivati alla cosiddetta «età della tecnica e della scienza» (cfr. parte prima, cap. 2°, par. 4).
Aiutarci l’un l’altro è ciò verso cui tendiamo già da sempre e inevitabilmente (anche quando affermiamo di disprezzare, odiare e ferire gli altri). Tutto è eternamente deciso, e il Tutto eterno (che consiste in ogni nostra singola esperienza) è l’Amore. Pertanto, anche il modo in cui il male e l’orrore si mostrano trionfanti è la medesima coscienza infinita dell’Amore, la quale è cosciente di sé stessa (è autocoscienza, autofondazione eterna; cfr. Glossario) attraverso le finite modalità irripetibili in cui dal prevalere dell’odio (cioè della volontà isolante nel suo non avvedersi di essere avvolta da sé stessa in quanto autentica volontà di amare) si giunge, attraversando il Passaggio, al prevalere dell’Amore.
Amare è inevitabile, quindi è inevitabile subire ingiustizie e far del male a «sé stessi» e agli «altri», affinché ci si renda concretamente conto di cosa effettivamente significa amare, e cioè affinché giudizi ingenui e saccenti (giudicare «sé stessi» e «gli altri» è comunque giudicare sé stessi in quanto già da sempre identici alla totalità dell’essente), uccisioni e tremende violenze vengano lasciati per sempre alle spalle.
Farsi del male è drogarsi, ma l’autentica «droga» appartiene a tutti, perché essa è la stessa volontà di trovare protezione (rispetto ai pericoli della vita e all’insipienza di fronte a ciò che veramente si è) in qualcosa che non è l’inespugnabile verità dell’Amore infinito. Anche la «scienza» (e le «religioni», la «filosofia occidentale e orientale», l’«ideologia politica», la «poesia», la «musica», l’«arte», etc.), se viene alterato (come spesso accade) il senso del suo apparire e imporsi, è una droga siffatta. E lo è anche questo mio stesso saggio e tutto ciò che posso «dire» o «scrivere»: se viene concepito non nel suo senso autentico, il quale include anche la volontà di alterarlo (una volontà che non può riuscire ad alterare ciò che essa vuole), allora anche questo mio libro (o qualsiasi altro) è il frutto (illusorio) di tale volontà (giacché se questo «frutto» viene isolato dalla volontà che ne vuole l’esistenza – essendo questa stessa volontà ad operare un tale isolamento contraddittorio –, allora esso non esiste affatto).
Non si è ancora in grado di scorgere concretamente, «in carne ed ossa», che «gli altri» sono esperienze passate e future della «propria» (solo l’esperienza dell’Inizio non ha dietro di sé alcun passato – e tuttavia essa «è» il passato di tutto il suo futuro –, e solo l’esperienza dell’Ultimo non ha davanti a sé alcun futuro – e tuttavia essa «è» il futuro di tutto il suo passato). Prevalendo il contraddirsi, ci si vuole imporre sugli «altri», ma, stiamo tentando di acclarare, «avere la meglio» ed escludere coloro che chiamiamo «gli altri» («gli altri individui umani» o, comunque, «le altre cose») – quindi anche coloro che definiamo «stupidi», «malati mentalmente», «malviventi», «delinquenti», «assassini», «ladri» – vuol dire esser dominati dall’autentica «ignoranza» (che coinvolge tutti, nessuno escluso ed io per primo). (Personalmente, invito tutti a darci una mano e cercare di scorgere che ci si vuol bene anche quando si è convinti del contrario – fermo restando che tutto è già da sempre ed eternamente esistente, quindi anche questo mio invito).

15 aprile 2012

6 commenti:

  1. sempre strepitosi....i tuoi pensieri grazie Marco

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  3. "(...) il prevalere della contradddizione in cui consiste la finitezza delle differenze". Contraddizione...?

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  4. Non "contraddizione C" ovviamente, ma "contraddizione" intesa come lo stesso "illudersi", DA PARTE del Soggetto infinito, di non essere il Soggetto infinito ma SOLTANTO una o una serie dell intero Arco di differenziazioni che conduce dalla Prima Volta al Ritorno

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  5. Dunque, si tratta solo un errante contra-dirsi...

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  6. No, perché l'errante contraddirsi (la parte) è il Tutto stesso che, in quanto anche parte di sé, è COSCIENZA PARZIALE DI SE'. L'illusione è parziale, CIOE' parziale coscienza, interna alla Coscienza assoluta del Tutto che, appunto in modo parziale-diacronico, vede TUTTA sé stessa illudendosi parzialmente di vedere SOLTANTO una parte.

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