Questo saggio si
qualifica come un’altra serie di studi intorno al significato veritativo dell’essere, la prima raccolta dei quali è
apparsa sotto il nome di Struttura
concreta dell’infinito (con sottotitolo: negare la «storia dell’uomo»,
oltrepassando il pensiero di Severino); quest’altro insieme di studi è,
pertanto, il naturale prolungamento di quella prima raccolta, un prolungamento
strettamente legato a quest’ultima soprattutto perché, in essa, rimangono impliciti
(esplicitati, ora, nel Tragico Amore)
alcuni risultati centrali del discorso sul vero significato dell’infinito (cioè
sull’autentico «senso della vita»). Tale implicitezza in effetti, presente nel
testo de La struttura concreta
dell’infinito, non ha consentito, al linguaggio di quel testo, di risolvere
alcuni cruciali e determinati problemi filosofici.
Del tragico Amore, oltre a contenere importanti chiarimenti e sviluppi intorno ai
risultati già accertati, analizzati e fondati in quel testo, si propone appunto
di risolvere tutti quei problemi filosofici, legati al significato complesso
(compiuto e specifico, nei limiti attuali che avvolgono questo linguaggio):
a) della morte (intesa
sia come lo stesso divenire che porta
dalla nascita alla cessazione di un essente, cioè di un eterno, sia come una
cessazione siffatta) – e quindi anche di ciò che affiora prima della nascita di ogni vita (ad esclusione della nascita di ciò che, in questo nuovo libro,
viene chiamato «la vita dell’Inizio», la quale vita non è preceduta da
alcunché, appunto perché essa è la prima,
già da sempre e definitivamente strutturata in sé stessa nel suo esser la vita
infinita del concreto apparire del Tutto che ogni essente in verità è);
b) della felicità
(ovverosia dell’Amore, del bene, della quiete, della pace, della serenità);
c) del dolore (cioè
della tragicità dei modi in cui la totalità dell’essere si contrappone
eternamente al niente assoluto);
d) dell’intera
configurazione di ogni passato e di ogni futuro – e pertanto dell’attendere
annunciando (cioè prevedendo) o non annunciando l’atteso, e del passare rimembrando
(cioè ricordando) o dimenticando il passato;
e) del ri-affiorare (ossia del vero significato del
«risorgere») degli eventi (vite, essenti eterni) di ciò che, in questo saggio,
viene chiamato «la Prima Volta» (ovvero il prevalere
della contraddizione in cui consiste la finitezza delle differenze – tale «riaffiorare»
essendo quello che, nel Tragico Amore,
viene chiamato «il Ritorno», tra il
percorso della Prima Volta e quello del Ritorno ponendosi, invece, «il
Passaggio “centrale”»), un riaffiorare che, giungendo al culmine del cammino finito della coscienza eterna del Tutto
infinito, conduce a quello che ne La
struttura concreta dell’infinito viene detto «ultimo evento», e che in
questo nuovo volume viene chiamato «la vita dell’Ultimo» – una vita che,
essendo l’ultima, non può essere seguita da nessun’altra (cioè da nessun altro
eterno incominciante).
La struttura concreta
della coscienza infinita dell’essere comprende sé stessa come una pluralità
numerabile (finita, limitata) di tratti (tempi, individuazioni), e cioè tale
coscienza (che ognuno di noi in verità è, anche in questo preciso momento della
«nostra vita», e nella completezza del passato e del futuro) è già da sempre ed
eternamente sé stessa nel modo diacronico in cui essa appare, dapprima (nel cammino affannoso e
laborioso della Prima Volta), come l’affiorare di un certo numero di essenti (vite
e rispettivi «passaggi», i quali portano da una vita all’altra; in questo
senso, possiamo quindi parlare di «reincarnazione», «vite precedenti e
successive» – la morte delle quali vite della Prima Volta essendo, in ogni
caso, come un provvisorio «sospiro di sollievo», cfr. parte seconda, cap. 3°,
par. 3), e poi, come l’avvento dell’eterno
Passaggio che conduce al riaffiorare
(cioè alla via del Ritorno) di quegli
stessi essenti (fino alla vita dell’Ultimo, che altro non è che il riaffiorare
dell’ultima vita della Prima Volta – la morte della vita dell’Ultimo essendo
essa stessa inevitabile, immutabile, sì che tale vita non è e non conduce ad
alcuna «scena fissa» in cui la coscienza del Tutto concreto sia un prolungamento, «all’infinito», del suo
eterno esser cosciente di sé stessa).
Dapprima, prevale l’erranza del dolore in cui
consiste ogni parte (dissomiglianza, individuazione, tempo, luogo) – giacché la
lettura dei segni, cioè delle tracce
che l’«altrui coscienza» lascia nella «propria», rimane enigmatica e deviante (e
gli stessi «propri» modi di manifestarsi risultano alquanto imperscrutabili) –,
ed in seguito, prevale la verità
dell’Amore in cui consistono gli stessi
essenti eterni che, nel trionfo di quell’erranza (cioè nel percorso della Prima
Volta), si angosciano e si affliggono: feriscono «sé stessi» e gli «altri» – sì
che, nel sentiero del Ritorno (e anzi già nel Passaggio), tutte le tracce
appaiono come esaustivamente decifrate, il futuro è compiutamente annunciato e
il passato totalmente ricordato.
Tutto ciò esiste in
eterno (l’espressione «in eterno» essendo un pleonasmo che ha il compito di delucidare
intorno al vero significato dell’«esistere»: «eternità» ed «essere» sono
semanticamente identici – un’identità semantica che si estende, in un senso, ad
ogni altro termine, e in un altro senso, a certi altri termini diversi da certi
altri ancora, a loro volta semanticamente identici tra di loro; su tutto ciò si
discorre ampiamente ne La struttura
concreta dell’infinito, e viene poi ripreso nel Tragico Amore). Ogni evento (di ogni passato, presente e futuro) si
manifesta in sé stesso già da sempre e definitivamente, nell’eternità
(infinità), cioè non essendo mai il niente, ossia non provenendo e non rientrando
nel niente. Noi non siamo il nulla, non lo siamo mai stati e mai lo saremo. Il
futuro e il passato (tutte le esperienze altrui) risiedono fermamente nelle
rispettive stanze di una casa che le include già da sempre ed eternamente (cfr.
parte prima, cap. 1°, par. 1). Tutto appare in eterno, nel modo temporale (cioè
nascendo, non venendo dal nulla, e morendo, non finendo nel nulla) che compete
ad ogni essente.
Il libro è suddiviso
in tre «parti» – la «Parte prima» essendo preceduta da un «Prologo» (un «dialogo
tra me e me»), ripreso e completato, subito dopo la «Parte terza», nell’«Epilogo»,
seguito a sua volta dalle «Conclusioni» e dal «Glossario» (al quale si fa
riferimento più volte nel corso di quest’opera, poiché in esso sono già
indicati i rinvii necessari per la decifrazione adeguata della medesima opera e
de La struttura concreta dell’infinito).
La «Parte prima» è
sostanzialmente un’«Introduzione» che presenta, allestisce e prepara il
terreno sul quale poggia il centro del discorso di questo nuovo saggio. Nel
capitolo 1°, di tale «Parte prima», vengono richiamati (in generale e in vari
punti specifici) e approfonditi i tratti di fondo del linguaggio de La struttura concreta dell’infinito: la
testimonianza della verità, il significato della «filosofia», le uguaglianze e
distinzioni semantiche tra i termini, la trascendenza e il divenire, il numero
finito degli eventi (dal primo all’ultimo), il vero significato dell’«altro»,
l’errare e l’impossibilità della «contraddizione C» (questa ultima essendo sostenuta negli scritti di Severino). Nel
capitolo 2°, invece, ci si accinge a parlare dei problemi risolti in questo
nuovo libro: il percorso finito della Prima Volta e quello altrettanto finito
del Ritorno, l’Amore autentico, la morte, il senso della «storia dell’uomo»; e viene
anche ripresa e rapportata ai nuovi temi la metafora del «lettore» che legge le
«pagine del libro» (una metafora che viene adottata all’inizio dell’«Introduzione»
de La struttura concreta dell’infinito).
Tale «Parte prima»
viene poi conclusa con ben cinque «Appendici (all’Introduzione)»: la prima è
dedicata ad una breve sintesi acritica de La
morte e la terra (il saggio probabilmente conclusivo della pars construens del discorso filosofico
di Severino); nella seconda, invece, viene riportata un’intervista che ho
rilasciato al giovane filosofo Alessandro Bagnato; nella terza («Tra il mio
linguaggio filosofico e quello di Severino») si può trovare un lungo dibattito
tra me e Roberto Fiaschi (il quale conosce molto bene le opere severiniane ed
avendo letto, anche, il mio saggio La
struttura concreta dell’infinito); nella quarta e nella quinta, infine,
vengono riportati due confronti che ho tenuto con Pietro De Luigi (un altro
studioso del discorso di Severino e del mio): il primo confronto è sulla
tematica filosofica del «segno», mentre il secondo – «La “classe”,
l’“inclusione”, la “parte”: tra Gödel, Strumia e Russell
(e altri ancora)» – si riferisce al rapporto tra la «logica simbolica» e le mie
tesi sui concetti di «classe», «inclusione», «totalità», «relazione», «parte»,
etc.
Nella «Parte seconda»,
poi, si mostra l’analisi dettagliata e minuziosa del risolvimento dei problemi
lasciati in sospeso ne La struttura
concreta dell’infinito. Nel capitolo 1°, di tale parte, appaiono ulteriori
precisazioni sul senso del linguaggio; nel capitolo 2° ci si sofferma sul
rinvio finito dei «modi» in cui la
vita infinita della coscienza sempreviva dell’essere si contrappone eternamente
al nulla; il capitolo 3° è dedicato soprattutto alla sofferenza delle vite (e
di ciò che sopraggiunge con la loro morte, nei vari «passaggi») appartenenti al
cammino finito della Prima Volta (dall’Inizio all’ultima configurazione che
precede il Passaggio); infine, nel capitolo 4° viene approfondita
l’esplicazione del fondamento per il quale si afferma l’esistenza del Passaggio
e della via del Ritorno, chiarendo il senso autentico e profondo dell’Amore e
del modo tragico di vivere la vita.
La «Parte terza» è
costituita, invece, da una ripresa della mia critica rivolta al discorso
filosofico di Severino, mettendo a confronto i nuovi risultati di questo saggio
con La morte e la terra. Pertanto,
viene spiegato analiticamente il motivo per cui è impossibile l’esistenza di
ciò che Severino chiama, in quella sua opera, l’«istante senza attesa» in cui «non
sopraggiunge alcunché», l’«istante», cioè, che (sempre secondo il linguaggio
filosofico di Severino) viene ad aggiungersi «con la morte della volontà
empirica». Si parla anche, in tale «Parte terza», del rapporto tra «l’Io del destino»
e «l’io dell’isolamento»; e, ancora, della «contraddizione C», del «sopraggiungente inoltrepassabile», dell’«apparire
infinito», della «Gloria della Gioia», del senso autentico del «risorgere» e
del «reincarnarsi», e di altro ancora.
Ognuno di noi (io per
primo) – anche chi evita di riconoscerlo (di fronte a quella che viene
considerata «la propria vita» o davanti a coloro che si crede siano «gli altri»,
estranei rispetto a ciò che nella propria
esperienza viene provato, sentito, pensato), attraverso maschere di ipocrisia,
cesellate da infingimenti, conformismi, convenzionalismi, cortine,
qualunquismi, mode, perbenismi, assuefazioni, usanze, costumi, dipendenze –
chiunque, si sta dicendo, si trova in enormi difficoltà identitarie e in condizioni
più o meno estreme di disagio, dovute al modo in cui ci si sente per lo più
avvolti e dominati dall’incapacità di cogliere il senso autentico delle cose
(ed è questo senso stesso che, al suo interno, non scorge la verità di sé
stesso: noi siamo, infatti, il senso autentico della vita il quale, per un
certo tempo – quello della Prima Volta –, è assoggettato alla propria
inconsapevolezza intorno a ciò che esso già da sempre è).
Tuttavia, si sta
chiarendo, ognuno di noi è (ancora, fino all’ultima vita del tracciato del
prevalere della contraddizione del divenire) dominato da tale incapacità: noi sappiamo chi siamo (perché il «sapere» è l’«essere» concretamente
inteso: «essere» e «sapere di essere» significano
lo stesso); sennonché il sapere (il conoscersi: l’autocoscienza della
totalità complessa dell’Uno indivisibile) – includendo sé stesso come un non sapere (ossia come ciò che, già ne La struttura concreta dell’infinito,
viene chiamato «il nulla come parzialmente affermato»: il «non», incluso dalla forma concretamente
assoluta dell’«essere»: il non esser questo mare, da parte di quelle montagne: il diversificarsi, il differire delle
differenze, cioè dei tempi, luoghi dell’apparire infinito dell’essente eterno:
il contraddirsi, cioè il non accorgersi di sapere, ossia di apparire, ossia di
esser l’eterno), e quindi essendo, tale sapere, l’uguaglianza concreta della
totalità che lega già da sempre (secondo una modalità processuale e cioè
tragica, data la necessità del nascere e del morire) i suoi due tratti essenziali costituiti, l’uno,
dal prevalere delle individuazioni finite (ovverosia dal tracciato della Prima
Volta), e l’altro, dal prevalere dell’essenza concreta (ossia dalla via del
Ritorno) –, il sapere, si sta appurando, resta ai margini, nell’eterno cammino limitato della Prima Volta,
rispetto alla preminenza e centralità del modo
(in cui consiste ciò che viene detto «tragicità della vita») in cui ognuno di
noi (ogni essente: la struttura concreta del fondamento eterno) è cosciente di
sé (ossia è sé stesso contrapponendosi già da sempre e infinitamente al nulla).
Dopodiché, cioè con la
morte dell’ultima esperienza di quel cammino, il sapere (il vero Amore: l’amare
autenticamente sé stessi, ossia tutto
ciò che appartiene all’essente) incomincia a prendere notevolmente spicco,
giacché con tale supremazia ci si rende sempre più conto di essere la «scala
perfetta» della struttura concreta dell’essente (cfr. parte seconda, cap. 3°,
par. 5) – della struttura concreta, cioè, della coscienza che esperisce sé
stessa nella tragicità (dapprima, cupa ed energica, e in seguito, sempre meno
intensa) del modo in cui, tale coscienza infinita, procede dal gradino più
basso a quello più alto di quella scala (tenendo fermo che una scala siffatta
è, nel suo insieme concreto, sia una «salita» che una «discesa»; e restando
ancora problematico, per il linguaggio che si sta portando avanti da La struttura concreta dell’infinito a Del tragico Amore, quali analogie o
addirittura identità semantiche possano costituirsi tra tale linguaggio e
l’eccelso discorso idealistico di Hegel, lasciando aperta la possibilità che
anche altri discorsi filosofici possano essere reinterpretati alla luce di quel
linguaggio, cfr. parte prima, cap. 1°, par. 2).
La felicità autentica
consiste in ogni singolo istante della nostra infinita esperienza («infinita», non nel senso che il percorso sul quale
camminiamo non possa giungere ad un’ultima configurazione definitiva – essendo
necessario, invece, che si pervenga alla vita dell’Ultimo –, ma semplicemente
nel senso che, quell’esperienza, esiste
– l’«esistere» essendo l’«esperienza» stessa di cui si dice che esiste –, cioè
si mostra in eterno: non proviene e non finisce nel nulla – anche se, in questo
caso eccezionale, il termine «semplicemente»
è da intendere come la complessità
semantica del Tutto comprendente ogni semplicità
semantica). La felicità non è una
situazione in cui non si patisca il dolore, perché una tale situazione è
impossibile, data la necessità eterna che ogni coscienza sia il Tutto (la
felicità autentica, appunto) cioè anche
le sue parti (il patimento del dolore).
Ciò significa
propriamente che noi, essendo sia
legati (dall’Amore e nell’Amore che noi stessi siamo, l’«Amore» illuminandosi
appunto come il «legame» che unisce il passato al futuro e ogni essente ad ogni
altro essente) – cioè in relazione, nell’uguaglianza infinita dell’Uno
indivisibile che ogni cosa è –, sia
distinti l’uno dall’altro (tale distinzione essendo la stessa distinzione tra il «legame» e la «distinzione», ovverosia
tra la totalità complessa della verità dell’Amore e le parti numerabili della
contraddizione del dolore, fermo restando che gli essenti immutabili – A, B,
C… – che strutturano il Tutto
infinito sono identici a quelli in
cui consistono le sue parti finite, un’identità includente appunto sé medesima
come un distinguersi tra A, B, C…),
siamo già da sempre e definitivamente opposti al niente proprio nel modo in cui l’Amore, ad un certo punto del suo cammino
(precisamente in quel punto che è il Passaggio affiorante con la morte
dell’ultima individuazione del percorso della Prima Volta), va concretamente
verso quell’altro punto (il primo passo della via finita del Ritorno, che si
affaccia con la morte del Passaggio) che si lascia definitivamente indietro il prevalere
del dolore (cioè della contraddizione del tempo).
Solo in questo senso,
autentico, si può ed è necessario affermare che la felicità si libera uscendo dai labirinti e
prigioni che, nel governo dell’errore (cioè nel percorso finito della Prima
Volta), la trattengono prevalentemente
nel dolore (nella tragedia, nella morte, nel limite).
Il dolore continua
pertanto ad essere patito anche quando, nella via del Ritorno, trionfa la
felicità dell’Amore infinito della struttura concreta dell’essente eterno. In
tale Ritorno, l’intensità, secondo la quale si manifesta il dolore, diminuisce
considerevolmente, e cioè l’intensità, secondo la quale l’acquietarsi,
felicitarsi e amarsi son presenti, comincia ad amplificarsi notevolmente ed in
contesti sempre più ampi e complessi, fino al coronamento conclusivo dell’ultima
appagante esperienza (quella dell’Ultimo).
Tuttavia, stiamo
appurando, non per cotanta gioia e
immenso splendore il dolore vien meno: avvicinarsi a quel coronamento, cioè
all’esito finale del cammino finito dell’infinito, significa infatti
avvicinarsi, anche, al tragico modo in cui ci si sente colmi di
gioia e sapienza. In effetti, pur non
finendo nel nulla, il viaggio
dell’infinito finisce – in eterno,
così come è nell’eternità che esso, infinito fondamento del Tutto, incomincia,
sorge, affiora, per poi permanere, in modo temporale e sempre in eterno, lungo
il sentiero della Prima Volta, con l’eterna morte della quale sopravviene il
Passaggio eterno che conduce all’eterna strada del Ritorno (avvertendo, qui,
nonostante sia già perspicuo da quanto si è detto, che il «Ritorno» di cui si
sta parlando non ha nulla a che vedere con l’«eterno ritorno dell’uguale» a cui
si riferiscono i pitagorici, gli stoici e soprattutto il linguaggio filosofico
di Nietzsche; cfr. La struttura concreta
dell’infinito, cap. VII, par. 5).
Siamo felici e ci
amiamo per un motivo (su un fondamento)
essenzialmente diverso da quello per
cui si dice solitamente, nell’illusione di non essere l’eterno apparire del
Tutto, che qualcuno è felice o infelice, ama o non ama (sé stesso, qualcosa o
qualcun altro). «Essenzialmente» diverso, nel senso che ciò che l’«individuazione» (che è la medesima «essenza» in
quanto, per l’appunto, si individua,
ossia in quanto è un temporalizzarsi, particolarizzarsi, specificarsi) si
illude che esista (l’«individuazione» essendo appunto l’«illudersi», il «contraddirsi»,
l’«errare»), questo «ciò», al di fuori
del suo esser lo stesso illudersi (incluso in sé stesso in quanto essenza che
lo oltrepassa già da sempre e definitivamente), non esiste, è il niente assoluto (il non-qualcosa, opposto eternamente alla
totalità concreta dell’essere, cioè dell’essenza infinita).
Vogliamo essere
felici, amarci, evitare il dolore (vogliamo renderci sempre più conto di quel
che siamo). Tuttavia, se vogliamo tutto ciò per
mezzo (servendoci) o sfruttando
(approfittando) delle situazioni «a nostro favore», escludendo la felicità altrui,
allora è chiaro che questa volontà vuole e si illude di raggiungere
l’irraggiungibile (l’impossibile, il contraddittorio, il nulla).
Il «controllo delle
emozioni» e la «resistenza alle tentazioni» sono il modo in cui cerchiamo,
senza grandi successi (e ciò avviene fino all’ultima esperienza del prevalere
della contraddizione del dolore), di privilegiare quel carattere autentico del
bene e della volontà di amare che viene designato per lo più con espressioni
quali «bontà d’animo», «umiltà», «sincerità», «rispetto», «modestia», «discrezione»,
«altruismo», «tolleranza», «clemenza», «indulgenza», «lealtà», «onestà», «buona
fede», «genuinità».
Ciò che chiamiamo
«esteriorità» prevale ancora (e fino alla vita conclusiva del cammino della
Prima Volta) su ciò che chiamiamo «interiorità». Le «persone» vengono «usate»,
ovverossia ci si serve di esse per la
realizzazione dei «propri scopi» («scopi personali», raggiungendo i quali si
crede di aver trovato un’isola felice della propria profonda ignoranza,
quest’ultima essendo, in verità, il mondo infernale in cui tutti ci troviamo
inevitabilmente – fermo restando che noi siamo l’oltrepassamento eterno di
quest’inferno, un oltrepassamento che è presente sempre e ovunque, e quindi anche
qui, adesso, benché sia destinato a risplendere in modo sempre più intenso già
nel Passaggio e ancor di più nel Ritorno), anche quando ci si convince di far
del bene all’altro (creando «famiglie», «gruppi sociali», «associazioni»,
«istituti»).
«Sessualità», «piaceri
fisici», «immaginazioni e proiezioni mentali», «cura del corpo», «ambizioni
sociali»: tutti modi, questi, in cui, nel
governo (prevalere) della «corporeità» (ossia della contraddizione del dissomigliarsi),
si vive «tra» gli altri (giacché questo è il significato essenziale del «tra-dire»), mettendo in
secondo piano lo «stare insieme» all’altro.
Si badi bene, però, a
non confondere quanto si sta affermando, intorno a queste umane «abitudini», con
la persuasione (priva di verità incontrovertibile) che esse si collochino su
uno sfondo semplicemente «negativo»: tutto è, infatti, «positivo» (nel suo
significato incontrovertibile) cioè anche
«negativo».
Il vero Amore (che
ogni essente è) ama ogni singola esperienza della «nostra vita», ama (= mostra,
è) sé stesso. La facilità e superficialità con cui oggi, nell’«età contemporanea»,
si parla dell’«amore» (soprattutto in modo mieloso, smanceroso, melenso, lezioso),
è lo specchio del momento transitorio in cui – dando addio alle tecniche
premature e alle barbarie del grande passato dell’Occidente, ed aspettando la
maturazione di un’epoca fatta di perfezionismi a non finire – viene tendenzialmente
perso di vista il senso «forte» del modo in cui si è arrivati alla cosiddetta «età
della tecnica e della scienza» (cfr. parte prima, cap. 2°, par. 4).
Aiutarci l’un l’altro
è ciò verso cui tendiamo già da sempre e inevitabilmente (anche quando
affermiamo di disprezzare, odiare e ferire gli altri). Tutto è eternamente
deciso, e il Tutto eterno (che consiste in ogni nostra singola esperienza) è
l’Amore. Pertanto, anche il modo in cui il male e l’orrore si mostrano
trionfanti è la medesima coscienza
infinita dell’Amore, la quale è cosciente di sé stessa (è autocoscienza,
autofondazione eterna; cfr. Glossario) attraverso le finite modalità
irripetibili in cui dal prevalere dell’odio (cioè della volontà isolante nel
suo non avvedersi di essere avvolta da sé stessa in quanto autentica volontà di
amare) si giunge, attraversando il Passaggio, al prevalere dell’Amore.
Amare è inevitabile, quindi è inevitabile subire ingiustizie
e far del male a «sé stessi» e agli «altri», affinché ci si renda concretamente
conto di cosa effettivamente significa amare,
e cioè affinché giudizi ingenui e saccenti (giudicare «sé stessi» e «gli altri»
è comunque giudicare sé stessi in quanto
già da sempre identici alla totalità dell’essente), uccisioni e tremende
violenze vengano lasciati per sempre alle spalle.
Farsi del male è
drogarsi, ma l’autentica «droga» appartiene a tutti, perché essa è la stessa
volontà di trovare protezione
(rispetto ai pericoli della vita e all’insipienza di fronte a ciò che veramente
si è) in qualcosa che non è l’inespugnabile
verità dell’Amore infinito. Anche la «scienza» (e le «religioni», la «filosofia
occidentale e orientale», l’«ideologia politica», la «poesia», la «musica»,
l’«arte», etc.), se viene alterato (come spesso accade) il senso del suo apparire
e imporsi, è una droga siffatta. E lo è anche questo mio stesso saggio e tutto
ciò che posso «dire» o «scrivere»: se viene concepito non nel suo senso
autentico, il quale include anche la volontà
di alterarlo (una volontà che non può
riuscire ad alterare ciò che essa vuole), allora anche questo mio libro (o
qualsiasi altro) è il frutto (illusorio) di tale volontà (giacché se questo
«frutto» viene isolato dalla volontà
che ne vuole l’esistenza – essendo questa stessa volontà ad operare un tale
isolamento contraddittorio –, allora esso non esiste affatto).
Non si è ancora in grado
di scorgere concretamente, «in carne ed ossa», che «gli altri» sono esperienze passate e future della «propria» (solo
l’esperienza dell’Inizio non ha
dietro di sé alcun passato – e tuttavia essa «è» il passato di tutto il suo futuro –, e solo l’esperienza
dell’Ultimo non ha davanti a sé alcun futuro – e tuttavia essa «è» il futuro di
tutto il suo passato). Prevalendo il
contraddirsi, ci si vuole imporre sugli «altri», ma, stiamo tentando di
acclarare, «avere la meglio» ed escludere
coloro che chiamiamo «gli altri» («gli altri individui umani» o, comunque,
«le altre cose») – quindi anche coloro che definiamo «stupidi», «malati mentalmente»,
«malviventi», «delinquenti», «assassini», «ladri» – vuol dire esser dominati
dall’autentica «ignoranza» (che
coinvolge tutti, nessuno escluso ed io per primo). (Personalmente, invito tutti
a darci una mano e cercare di scorgere che ci si vuol bene anche quando si è
convinti del contrario – fermo restando che tutto è già da sempre ed eternamente
esistente, quindi anche questo mio invito).
15 aprile 2012
sempre strepitosi....i tuoi pensieri grazie Marco
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiElimina"(...) il prevalere della contradddizione in cui consiste la finitezza delle differenze". Contraddizione...?
RispondiEliminaNon "contraddizione C" ovviamente, ma "contraddizione" intesa come lo stesso "illudersi", DA PARTE del Soggetto infinito, di non essere il Soggetto infinito ma SOLTANTO una o una serie dell intero Arco di differenziazioni che conduce dalla Prima Volta al Ritorno
RispondiEliminaDunque, si tratta solo un errante contra-dirsi...
RispondiEliminaNo, perché l'errante contraddirsi (la parte) è il Tutto stesso che, in quanto anche parte di sé, è COSCIENZA PARZIALE DI SE'. L'illusione è parziale, CIOE' parziale coscienza, interna alla Coscienza assoluta del Tutto che, appunto in modo parziale-diacronico, vede TUTTA sé stessa illudendosi parzialmente di vedere SOLTANTO una parte.
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