martedì 27 gennaio 2015

Gorgia (estratto de "Le Materie Prime della coscienza")



Estratto del par. 2, cap. 2°, [A.], III, parte seconda; estratto, cioè, de «La Prima Sofistica: Protagora; Gorgia; Trasimaco, Callicle, Seniade (e altri); Filosofia Medica (Ippocrate di Cos); Filosofia Drammaturgica (Euripide); Erodoto, Tucidide di Atene»

Gorgia

Anche nei confronti dell’estremo e lapidario linguaggio di Gorgia (di Lentini, circa 485-375 a.C., filosofo greco; opere principali: Sulla natura o sul non essere, Encomio di Elena, Apologia di Palamede) prevalgono le interpretazioni (ossia le volontà di alterare l’inalterabile). In realtà, se esiste un tale linguaggio (rimanendo ancora un problema stabilire in che cosa consistano precisamente i linguaggi che appaiono nel loro differire da quello che appare nella propria attuale coscienza, in quanto appunto differente dalle altre coscienze), è inevitabile che quando Gorgia sostiene che «nulla esiste» voglia dire che nulla, di ciò che viene creduto come manifesto al di là del «mondo» della cui esistenza tutti (Gorgia per primo) siamo convinti, esiste; che è cosa ben diversa dal dire che, in assoluto e in tutti i modi, è necessario affermare che nulla è (soltanto se esistesse una coscienza ignorante separata dalla verità, soltanto in questo caso – in realtà impossibile – potrebbe essere accettata la tesi che né dell’essere né del non essere si può dire che è).
Gorgia, col suo linguaggio, intende mostrare (nonostante lo mostri debolmente) che qualsivoglia tesi a favore della esistenza di un arché trascendentale (l’acqua di cui parla Talete e così via fino al Noûs di Anassagora e all’insieme infinito di atomi a cui si riferiscono Democrito e Leucippo) è una tesi che non può avere un fondamento innegabile, non può avere un valore assoluto. La riflessione di Gorgia è quindi una (magra) anticipazione del modo in cui è destino che il dominio della volontà privata di potenza (una volontà che, appunto, vuole affermare una tesi siffatta) venga lasciato alle spalle dal dominio della volontà pubblica di potenza (una volontà che, invece, rileva inevitabilmente l’incongruenza della volontà privata).
Tale anticipazione è debole, si sta dicendo, perché Gorgia non dice quale sia il motivo fondamentale e necessario per cui bisogna affermare che la verità è soltanto questo nostro agire e l’agire di tutte le coscienze possibili (nel quale agire si ha fede, cioè fermo restando che la verità autentica vede l’impossibilità che la volontà di agire ottenga ciò che essa vuole). Se, infatti, prevalesse in lui la conoscenza di questo motivo, non aggiungerebbe, dopo aver detto che non può esistere né l’essere né il non essere, che «se qualcosa esiste è inconoscibile», poiché, così aggiungendo, ammette la possibilità della non inevitabilità della prima tesi («nulla è») – e quindi, se esistesse in lui un siffatto prevalere, non aggiungerebbe neppure che «se qualcosa è conoscibile, è incomunicabile».
Tuttavia, stando all’argomentazione della prima tesi («nulla è»), non è un’argomentazione di poco conto. Difatti, data la necessità dell’eterno prevalere dell’illudersi di non essere l’autentico Tutto eterno che appare processualmente (anche nella coscienza di Gorgia apparendo tale prevalere eterno), e data l’essenziale incongruenza di tale illudersi in quanto volontà privata di potenza, il discorso di Gorgia, riguardo a quella prima tesi, appare in certo modo coerente.
Si prenda come esempio questa significativa sequenza logica: «[...] se l’essere è eterno [...] non ha alcun principio [...] Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e così l’essere non sarà più illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo [...] E neppure è contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è assurdo. Dunque l’essere non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste» (Sesto Empirico, Contro i matematici).
L’isolamento voluto tra «illimitato» e «luogo» e tra «eterno» e «ciò che nasce» è dato dal fatto che (secondo la coerenza dell’argomentazione di Gorgia), prevalendo la fede (in ogni coscienza, compresa quella di Gorgia) che l’innegabilità della manifestazione del «luogo» di «ciò che nasce» (del morente e di ogni ente cangiante) non sia il «luogo» illimitato (che cioè, essendo assolutamente legato al Tutto, è il Tutto stesso nel suo non venire e non rientrare nel nulla, ossia nel suo non esser limitato da qualcosa di ulteriore al Tutto già eternamente posto, tale affermazione essendo la stessa affermazione che il nulla assoluto limita il Tutto, ossia che nulla limita il Tutto, ossia che, al di fuori del Tutto infinito, non può esistere alcun essente che lo limiti) dell’eternità (= esser sé = apparire) di «ciò che nasce» (il senso autentico dell’«eterno» essendo il senso stesso dell’«illimitato»), è inevitabile concludere che l’«eterno illimitato», non potendo essere (secondo quella fede) in alcun «luogo» in cui appare «ciò che nasce» (e che muore), non può esistere.

Al di fuori della congruenza e incongruenza di tale fede appare, per l’appunto, che ogni cosa (= essente = coscienza) diveniente è illimitata, cioè eterna, cioè non sporgente e non rientrante nel nulla, è cioè sé stessa, è manifesta; ed appare, anche, che il «contenente» contiene sé stesso come «contenuto» (questa stessità essendo lo stesso eterno «contenente», identico al «contenuto», quest’ultimo essendo, in quanto distinto da sé stesso nel suo esser «contenente», questa medesima distinzione eterna, cioè la distinzione di un’uguaglianza, ovvero dell’uguaglianza eterna tra «contenente» e «contenuto» – e tenendo presente che tale distinzione eterna è la distinzione tra il «contenente», come distinto da sé stesso in quanto «contenuto», e il «contenuto», come distinto da sé stesso in quanto «contenente», e cioè, rispettivamente, tra il prevalere eterno del «contenente», su sé stesso in quanto «contenuto», e il prevalere eterno del «contenuto», su sé stesso in quanto «contenente»).

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