Estratto del par.
2, cap. 2°, [A.], III, parte seconda; estratto, cioè, de «La Prima Sofistica:
Protagora; Gorgia; Trasimaco, Callicle, Seniade (e altri); Filosofia Medica
(Ippocrate di Cos); Filosofia Drammaturgica (Euripide); Erodoto, Tucidide di
Atene»
Gorgia
Anche nei confronti
dell’estremo e lapidario linguaggio di Gorgia (di Lentini, circa 485-375 a.C.,
filosofo greco; opere principali: Sulla
natura o sul non essere, Encomio di
Elena, Apologia di Palamede)
prevalgono le interpretazioni (ossia le volontà di alterare l’inalterabile). In
realtà, se esiste un tale linguaggio
(rimanendo ancora un problema stabilire in
che cosa consistano precisamente i linguaggi che appaiono nel loro differire da quello che appare nella propria attuale coscienza, in
quanto appunto differente dalle
altre coscienze), è inevitabile che quando Gorgia sostiene che «nulla esiste»
voglia dire che nulla, di ciò che viene
creduto come manifesto al di là del «mondo» della cui esistenza tutti (Gorgia
per primo) siamo convinti, esiste; che è cosa ben diversa dal dire che, in assoluto e in tutti i modi, è
necessario affermare che nulla è (soltanto se esistesse una coscienza ignorante
separata dalla verità, soltanto in
questo caso – in realtà impossibile – potrebbe essere accettata la tesi che né
dell’essere né del non essere si può dire che è).
Gorgia, col suo
linguaggio, intende mostrare (nonostante lo mostri debolmente) che qualsivoglia tesi a favore della esistenza
di un arché trascendentale (l’acqua
di cui parla Talete e così via fino al Noûs
di Anassagora e all’insieme infinito di atomi a cui si riferiscono Democrito e
Leucippo) è una tesi che non può avere un
fondamento innegabile, non può avere un valore assoluto. La riflessione di
Gorgia è quindi una (magra) anticipazione del modo in cui è destino che il dominio della volontà privata
di potenza (una volontà che, appunto, vuole affermare una tesi siffatta) venga
lasciato alle spalle dal dominio della volontà pubblica di potenza (una volontà
che, invece, rileva inevitabilmente l’incongruenza della volontà privata).
Tale anticipazione
è debole, si sta dicendo, perché Gorgia non
dice quale sia il motivo fondamentale e
necessario per cui bisogna affermare che la verità è soltanto questo nostro agire e l’agire di tutte le coscienze
possibili (nel quale agire si ha fede, cioè fermo restando che la verità
autentica vede l’impossibilità che la volontà di agire ottenga ciò che essa
vuole). Se, infatti, prevalesse in lui la conoscenza di questo motivo, non aggiungerebbe, dopo aver detto che
non può esistere né l’essere né il non essere, che «se qualcosa esiste è
inconoscibile», poiché, così aggiungendo, ammette la possibilità della non inevitabilità
della prima tesi («nulla è») – e quindi, se esistesse in lui un siffatto
prevalere, non aggiungerebbe neppure che «se qualcosa è conoscibile, è
incomunicabile».
Tuttavia, stando
all’argomentazione della prima tesi («nulla è»), non è un’argomentazione di
poco conto. Difatti, data la necessità dell’eterno prevalere dell’illudersi di
non essere l’autentico Tutto eterno
che appare processualmente (anche nella coscienza di Gorgia apparendo tale
prevalere eterno), e data l’essenziale incongruenza
di tale illudersi in quanto volontà privata di potenza, il discorso di
Gorgia, riguardo a quella prima tesi, appare in certo modo coerente.
Si prenda come
esempio questa significativa sequenza logica: «[...] se l’essere è eterno [...]
non ha alcun principio [...] Poiché ha un principio tutto ciò che nasce; ma
l’eterno, essendo per definizione ingenerato, non ha avuto principio. E non
avendo principio, è illimitato. E se è illimitato, non è in alcun luogo. Perché
se è in qualche luogo, ciò in cui esso è, è cosa distinta da esso; e così
l’essere non sarà più illimitato, ove sia contenuto in alcunché; perché il
contenente è maggiore del contenuto, mentre nulla può esser maggiore
dell’illimitato; dunque l’illimitato non è in alcun luogo [...] E neppure è
contenuto in se stesso. Perché allora sarebbero la stessa cosa il contenente e
il contenuto, e l’essere diventerebbe duplice, cioè luogo e corpo; essendo il
contenente, luogo, e il contenuto, corpo. Ma questo è assurdo. Dunque l’essere
non è neppure in se stesso. Sicché se l’essere è eterno, è illimitato; se è
illimitato, non è in alcun luogo; e se non è in alcun luogo, non esiste» (Sesto
Empirico, Contro i matematici).
L’isolamento voluto tra «illimitato» e
«luogo» e tra «eterno» e «ciò che nasce» è dato dal fatto che (secondo la coerenza dell’argomentazione di Gorgia),
prevalendo la fede (in ogni coscienza, compresa quella di Gorgia) che
l’innegabilità della manifestazione del «luogo» di «ciò che nasce» (del morente
e di ogni ente cangiante) non sia il
«luogo» illimitato (che cioè, essendo
assolutamente legato al Tutto, è il
Tutto stesso nel suo non venire e non rientrare nel nulla, ossia nel suo non esser limitato da qualcosa di ulteriore
al Tutto già eternamente posto, tale affermazione essendo la stessa
affermazione che il nulla assoluto limita il Tutto, ossia che nulla limita il Tutto, ossia che, al di fuori del Tutto infinito, non può esistere alcun essente che lo limiti) dell’eternità (= esser sé = apparire) di «ciò
che nasce» (il senso autentico dell’«eterno» essendo il senso stesso
dell’«illimitato»), è inevitabile concludere che l’«eterno illimitato», non
potendo essere (secondo quella fede) in alcun «luogo» in cui appare «ciò che
nasce» (e che muore), non può esistere.
Al di fuori della
congruenza e incongruenza di tale fede appare, per l’appunto, che ogni cosa (=
essente = coscienza) diveniente è illimitata, cioè eterna, cioè non sporgente e
non rientrante nel nulla, è cioè sé stessa, è manifesta; ed appare, anche, che il
«contenente» contiene sé stesso come
«contenuto» (questa stessità essendo lo stesso eterno «contenente», identico al
«contenuto», quest’ultimo essendo, in
quanto distinto da sé stesso nel suo esser «contenente», questa medesima
distinzione eterna, cioè la distinzione di
un’uguaglianza, ovvero dell’uguaglianza eterna tra «contenente» e
«contenuto» – e tenendo presente che tale distinzione eterna è la distinzione
tra il «contenente», come distinto da sé
stesso in quanto «contenuto», e il «contenuto», come distinto da sé stesso in quanto «contenente», e cioè,
rispettivamente, tra il prevalere eterno
del «contenente», su sé stesso in
quanto «contenuto», e il prevalere eterno
del «contenuto», su sé stesso in
quanto «contenente»).
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