lunedì 19 gennaio 2015

"Le Materie Prime della coscienza": Prefazione (di Alberto Maso)



 [L’amico Alberto Maso (n. 1991) – attento lettore dei miei scritti e, in particolar modo, di quelli di E. Severino – è uno studente di Filosofia, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia].

È un piacere per me poter introdurre questa nuova opera di Marco Pellegrino, filosofo autodidatta e conoscente, il quale, ormai da alcuni anni, sta contribuendo a dare nuova luce alle molte questioni da sempre aperte della Filosofia attraverso un rigore argomentativo e una profondità filosofica sempre più rari nel panorama attuale. Questo terzo volume, il naturale punto d’arrivo de La struttura concreta dell’infinito e Del tragico Amore, si configura in maniera nuova, a partire dal contenuto in esso presente, lontano dalle mode in cui rimane ingabbiata molta Filosofia non curante del pensiero critico. Pellegrino si «muove» e commuove gli animi (per l’alto livello speculativo), facendo parlare i suoi scritti a partire da una visione totalmente estranea a qualsiasi contenuto o atteggiamento irrazionale. La sua è Filosofia pura e nello stesso tempo concreta: le due qualità, solo apparentemente in contraddizione secondo il precetto del cosiddetto «senso comune», trovano in questi scritti un’intima vicinanza poiché esse si strutturano in un rapporto complementare, di modo che l’identità che lega tali qualità riesca a trasmettere legittima sostanzialità alla natura del Tutto. Il Tutto di per sé non avrebbe bisogno di alcuna indicazione, se non fosse che esso, in virtù del suo stesso linguaggio e cioè della sua pur sempre articolazione nelle diverse modalità espressive via via producentisi, esibisce sé stesso mostrandosi in una costante concettualità funzionale all’esplorazione minuziosa dei suoi contenuti e delle sue differenziazioni; concettualità, dunque, necessaria e in grado di dire il contenuto senza per questo inglobarlo in una sterile necessità. In tal senso, i grandi temi che hanno accompagnato sin dall’inizio la Filosofia (che per essa costituiscono il suo nettare e il suo sviluppo) vengono rischiarati sulla base di una nuova esplorazione del fondamento della materia. Tale esplorazione – e più specificatamente lo spirito che muove da essa – credo richiami molto quanto Platone ci ha trasmesso in eredità trattando nel Fedone della «seconda navigazione»: in epoca moderna, arenati in una situazione senza via d’uscita e in un mondo la cui sostanza continua a perdere sempre più spessore a causa dell’estensione pubblica del prodursi delle diverse forme di relativismo, abbracciare i remi e mettersi nuovamente all’opera – soprattutto se tale opera si coniuga filosoficamente – può comportare difficoltà e sconforto. Pellegrino è ben consapevole di questo e ciononostante, motivato verso una precisa direzione, decide di camminare e remare, nel riconoscimento della pur sempre vitale forza della Filosofia. Il suo è e continua ad essere un richiamo all’antico. L’autentica Filosofia, come ben rilevato dal filosofo bellunese Giovanni Romano Bacchin e come ben sa l’Autore, è un costante riconvocare l’antico al giudizio e allo sguardo. Mettersi in tale condizione significa (come Bacchin rileva) «per la Filosofia tornare su se stessa, dandosi l’antico come nuovo, restituendosi perennemente a se stessa». Ritornando all’antico si riscopre quella medesimezza o stessità, a cui peraltro lo stesso Autore fa riferimento, che fa perenne il filosofare – essenzialità, questa, che si rivela filosofando.
Il farsi carico della ricerca in cui consiste il filosofare significa rilevare il modo in cui tale ricerca disvela la presenza, in tutta la sua forza, del vero come assente; e ciò comporta, contemporaneamente, il capovolgimento dell’impostazione classica, ritenendo realmente la ricerca non (semplicemente) riducibile alla situazione singola di colui che ricerca. Tema, questo, fin troppo eluso dal sapere scientifico – Pellegrino spiegando, tuttavia, che la vera «Scienza» è la stessa «Filosofia» e che questa stessità include sé medesima come autentica (e non riduttivistica) «Tecnologia» (giacché ciò che ho appena chiamato «sapere scientifico» è, secondo il linguaggio dell’Autore, il riduttivistico sapere «tecnologico») –, un sapere che, nel ritenersi al di sopra di tutto e di tutti, crede di potersi deliberatamente sbarazzare della Filosofia. Lo sapeva bene Hegel (al quale Pellegrino dedica un interessantissimo capitolo in questa nuova opera), e lo potrebbe capir bene, se solo si mettesse nella condizione di poterlo capire, anche quel medesimo sapere scientifico di cui si sta parlando, occupato nel liquidare con fin troppa sbrigatività l’inesistenza dei problemi prettamente filosofici riducendoli a problemi di linguaggio. Ciò che personalmente trovo radicale, soprattutto sensatamente ad uno sguardo sul fondamento, è la meraviglia che pervade costantemente l’intera produzione filosofica e letteraria di Pellegrino. Come può, ci si chiederà, un testo filosofico aver il potere di meravigliare? Si può rispondere affermativamente se si tiene in mente proprio il senso della ricerca di cui sopra si parlava. Meravigliarsi significa tornare sui temi (la vita, la morte, il rapporto dell’uomo con il cosmo, il desiderio...) che da sempre hanno alimentato la curiosità umana; grazie ad essa, infatti, diamo energia ai nostri stessi prodotti e al nostro stesso filosofare.
A questo punto mi sembra doveroso richiamare alla memoria, benché in maniera molto breve facendo un torto ai contenuti, lo sviluppo del percorso filosofico di Pellegrino. La sua produzione, infatti, segue temporalmente tre momenti, corrispondenti alla pubblicazione delle tre singole opere. Con ciò non si intende dire che ogni opera sia separata dalle altre, poiché in questo modo si interpreterebbero in maniera scorretta le stesse intenzioni dell’Autore. Ciò che segue, dunque, potrebbe essere inteso come un insieme di note a margine volte a restituire solamente un riepilogo veloce del percorso del filosofo.
Il primo libro, La struttura concreta dell’infinito, si costituisce come uno studio che, muovendo da ciò che l’Autore intende specificatamente indicare, critica analiticamente il linguaggio di Emanuele Severino – un linguaggio che viene inteso, in quel libro, come una differente modalità di riferirsi al medesimo significato, ossia di essere un differente modo in cui la totalità dell’essere è tale. Pellegrino in questo scritto si propone di portare alla luce (attraverso argomentazioni serrate e con un rigore pari a pochi altri e sempre più rari teoreti) la tesi che l’infinito sia ogni cosa e costituisca la sua costante presenza nella concretezza di ogni esperienza reale; tali tematiche si accompagnano alla riflessione volta ad evidenziare come prevalga ancora l’illusione, da parte di tutta la Filosofia del nostro tempo, di non poter vedere tale concretezza propria dell’infinito. (Si renda noto, inoltre, che il confronto con il linguaggio di Severino, partendo da questo libro, sarà poi costante in tutti i successivi lavori dell’Autore).
Il secondo libro, Del tragico Amore, oltre ad esplicitare il cuore delle tematiche presenti nel precedente scritto, risponde ad alcune domande lasciate aperte, in particolar modo focalizzandosi su concetti essenziali quali la morte, il dolore, la felicità ed insieme allargando il discorso per poter comprendere in che maniera intendere espressioni quali «felicità autentica» e «vero Amore» rapportati all’infinito (cioè al Tutto eterno) che ogni vita è; pertanto, vengono specificate le diverse tappe con cui lo stesso infinito vede il proprio sviluppo, attraverso la spiegazioni di concetti come «la Prima Volta», «il Passaggio», «il Ritorno». Tentar qui una semplificazione di che cosa indichino queste espressioni è compito assai difficile e poco praticabile; basta però qui sottolineare come incessantemente l’Autore non faccia altro che spiegare come l’autentica vita sia quella maestosità in cui consiste l’eternità infinita dell’Intero, non mancando di indicare come ogni esperienza del Tutto sia l’esperienza di tutti Noi, proprio per il fatto che Noi siamo quel Tutto stesso che esperisce ogni esperienza. Sottolineo, inoltre, come nel Tragico Amore siano innumerevoli gli incontri, nel senso più alto del dialogo filosofico, con altri interlocutori e in altri campi: si spazia da un confronto col discorso filosofico di Severino, sia direttamente rivolgendosi ai suoi lavori, sia indirettamente attraverso il confronto con Roberto Fiaschi – studioso da anni di tale discorso (segnalo il suo blog, emanueleseverinorisposteaisuoicritici.it, curato con passione e serietà) –, per passare poi al rapporto tra il linguaggio dell’Autore e quello «tecnologico». La ricchezza concettuale, insomma, si rivela in tutta la sua portata fino a culminare nel terzo libro.
La presente opera, infatti, dimostra di avere un intento diverso rispetto alle altre due. Ben consapevole che prima o poi sarebbe stato necessario un confronto diretto con l’intera storia della Filosofia, l’Autore offre al lettore un vero e proprio «Manuale» dal quale partire per poi analizzare autonomamente, secondo la luce nuova offerta dall’intera Opera pellegriniana, il percorso dell’umanità sino ai nostri giorni. È di gran lunga evidente che l’Autore non può non sapere che esplicitare la diversa ricchezza propria di ogni «materia della coscienza» (ossia di ogni specificazione del Tutto) non basterebbe a contenere un singolo volume. Ecco perché l’intenzione è quella, come si ricava dal sottotitolo, di ripercorrere «agli occhi della verità autentica», cioè in riferimento a tutto ciò che Pellegrino ha scritto sin dall’inizio, i singoli momenti dell’intera storia del pensiero filosofico. Il lavoro finale è monumentale e lascia al lettore la libertà per poter essere affrontato secondo i propri tempi ed esigenze. L’obiettivo è quello di permettere allo studioso di potersi dedicare all’approfondimento di ogni singola pietruzza del cammino, invitandolo però ad indirizzare il proprio studio nel rapporto e nel continuo dialogo con la verità autentica del Tutto, in modo tale da vedersi alla fine trasfigurata e chiarificata ogni singola pietruzza oggetto di indagine.
Il lettore attento avrà a questo punto compreso la necessità di ritornare a quanto si diceva all’inizio rispetto alla ricerca propria del filosofare. Mentre il «senso comune» è per lo più incapace di indicare le diverse modalità in cui la verità si mostra, la Filosofia si appresta a tale compito, non separandosi dalla realtà a cui fa costante riferimento quel «senso comune», bensì chiarificando e delucidando intorno alle questioni massime proprie di una siffatta realtà. Il dono di Pellegrino è dunque quello di preservare lo spirito del filosofare e nello stesso tempo di continuare a coltivarlo, nella convinzione che ripercorrere i temi cardine dell’ontologia significhi contribuire ad esprimere compiutamente e concretamente quella verità che ognuno di Noi è e che non può fare a meno di mostrarsi in tutta la sua pienezza in ogni nostro singolo attimo di vita.

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