[L’amico Alberto Maso (n. 1991) – attento lettore dei miei scritti e, in particolar modo, di quelli di E. Severino – è uno studente di Filosofia, presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia].
È un piacere per me
poter introdurre questa nuova opera di Marco Pellegrino, filosofo autodidatta e
conoscente, il quale, ormai da alcuni anni, sta contribuendo a dare nuova luce
alle molte questioni da sempre aperte della Filosofia attraverso un rigore argomentativo
e una profondità filosofica sempre più rari nel panorama attuale. Questo terzo
volume, il naturale punto d’arrivo de La
struttura concreta dell’infinito e Del
tragico Amore, si configura in maniera nuova, a partire dal contenuto in
esso presente, lontano dalle mode in cui rimane ingabbiata molta Filosofia non
curante del pensiero critico. Pellegrino si «muove» e commuove gli animi (per
l’alto livello speculativo), facendo parlare i suoi scritti a partire da una
visione totalmente estranea a qualsiasi contenuto o atteggiamento irrazionale.
La sua è Filosofia pura e nello stesso tempo concreta: le due qualità, solo apparentemente
in contraddizione secondo il precetto del cosiddetto «senso comune», trovano in
questi scritti un’intima vicinanza poiché esse si strutturano in un rapporto
complementare, di modo che l’identità che lega tali qualità riesca a
trasmettere legittima sostanzialità alla natura del Tutto. Il Tutto di per sé
non avrebbe bisogno di alcuna indicazione, se non fosse che esso, in virtù del suo
stesso linguaggio e cioè della sua pur sempre articolazione nelle diverse
modalità espressive via via producentisi, esibisce sé stesso mostrandosi in una
costante concettualità funzionale all’esplorazione minuziosa dei suoi contenuti
e delle sue differenziazioni; concettualità, dunque, necessaria e in grado di
dire il contenuto senza per questo inglobarlo in una sterile necessità. In tal senso, i grandi temi che hanno accompagnato
sin dall’inizio la Filosofia (che per essa costituiscono il suo nettare e il
suo sviluppo) vengono rischiarati sulla base di una nuova esplorazione del
fondamento della materia. Tale esplorazione – e più specificatamente lo spirito
che muove da essa – credo richiami molto quanto Platone ci ha trasmesso in
eredità trattando nel Fedone della «seconda
navigazione»: in epoca moderna, arenati in una situazione senza via d’uscita e in
un mondo la cui sostanza continua a perdere sempre più spessore a causa
dell’estensione pubblica del prodursi delle diverse forme di relativismo,
abbracciare i remi e mettersi nuovamente all’opera – soprattutto se tale opera
si coniuga filosoficamente – può comportare difficoltà e sconforto. Pellegrino
è ben consapevole di questo e ciononostante, motivato verso una precisa
direzione, decide di camminare e remare, nel riconoscimento della pur sempre
vitale forza della Filosofia. Il suo è e continua ad essere un richiamo
all’antico. L’autentica Filosofia, come ben rilevato dal filosofo bellunese
Giovanni Romano Bacchin e come ben sa l’Autore, è un costante riconvocare
l’antico al giudizio e allo sguardo. Mettersi in tale condizione significa
(come Bacchin rileva) «per la Filosofia tornare su se stessa, dandosi l’antico
come nuovo, restituendosi perennemente a se stessa». Ritornando all’antico si riscopre
quella medesimezza o stessità, a cui peraltro lo stesso Autore fa riferimento,
che fa perenne il filosofare – essenzialità, questa, che si rivela filosofando.
Il farsi carico
della ricerca in cui consiste il filosofare significa rilevare il modo in cui
tale ricerca disvela la presenza, in
tutta la sua forza, del vero come assente; e ciò comporta, contemporaneamente,
il capovolgimento dell’impostazione classica, ritenendo realmente la ricerca
non (semplicemente) riducibile alla situazione singola di colui che ricerca. Tema,
questo, fin troppo eluso dal sapere scientifico – Pellegrino spiegando, tuttavia,
che la vera «Scienza» è la stessa «Filosofia» e che questa
stessità include sé medesima come autentica
(e non riduttivistica) «Tecnologia» (giacché ciò che ho appena chiamato «sapere
scientifico» è, secondo il linguaggio dell’Autore, il riduttivistico sapere «tecnologico») –, un sapere che, nel
ritenersi al di sopra di tutto e di tutti, crede di potersi deliberatamente
sbarazzare della Filosofia. Lo sapeva bene Hegel (al quale Pellegrino dedica un
interessantissimo capitolo in questa nuova opera), e lo potrebbe capir bene, se
solo si mettesse nella condizione di poterlo capire, anche quel medesimo sapere
scientifico di cui si sta parlando, occupato nel liquidare con fin troppa
sbrigatività l’inesistenza dei problemi prettamente filosofici riducendoli a
problemi di linguaggio. Ciò che personalmente trovo radicale, soprattutto
sensatamente ad uno sguardo sul fondamento, è la meraviglia che pervade
costantemente l’intera produzione filosofica e letteraria di Pellegrino. Come
può, ci si chiederà, un testo filosofico aver il potere di meravigliare? Si può
rispondere affermativamente se si tiene in mente proprio il senso della ricerca
di cui sopra si parlava. Meravigliarsi significa tornare sui temi (la vita, la
morte, il rapporto dell’uomo con il cosmo, il desiderio...) che da sempre hanno
alimentato la curiosità umana; grazie ad essa, infatti, diamo energia ai nostri
stessi prodotti e al nostro stesso filosofare.
A questo punto mi
sembra doveroso richiamare alla memoria, benché in maniera molto breve facendo
un torto ai contenuti, lo sviluppo del percorso filosofico di Pellegrino. La
sua produzione, infatti, segue temporalmente tre momenti, corrispondenti alla
pubblicazione delle tre singole opere. Con ciò non si intende dire che ogni
opera sia separata dalle altre, poiché in questo modo si interpreterebbero in
maniera scorretta le stesse intenzioni dell’Autore. Ciò che segue, dunque, potrebbe
essere inteso come un insieme di note a margine volte a restituire solamente un
riepilogo veloce del percorso del filosofo.
Il primo libro, La struttura concreta dell’infinito, si
costituisce come uno studio che, muovendo da ciò che l’Autore intende
specificatamente indicare, critica analiticamente il linguaggio di Emanuele
Severino – un linguaggio che viene inteso, in quel libro, come una differente
modalità di riferirsi al medesimo significato, ossia di essere un differente modo
in cui la totalità dell’essere è tale. Pellegrino in questo scritto si propone
di portare alla luce (attraverso argomentazioni serrate e con un rigore pari a
pochi altri e sempre più rari teoreti) la tesi che l’infinito sia ogni cosa e
costituisca la sua costante presenza nella concretezza di ogni esperienza
reale; tali tematiche si accompagnano alla riflessione volta ad evidenziare
come prevalga ancora l’illusione, da parte di tutta la Filosofia del nostro
tempo, di non poter vedere tale concretezza propria dell’infinito. (Si renda noto,
inoltre, che il confronto con il linguaggio di Severino, partendo da questo
libro, sarà poi costante in tutti i successivi lavori dell’Autore).
Il secondo libro, Del tragico Amore, oltre ad esplicitare
il cuore delle tematiche presenti nel precedente scritto, risponde ad alcune
domande lasciate aperte, in particolar modo focalizzandosi su concetti
essenziali quali la morte, il dolore, la felicità ed insieme allargando il
discorso per poter comprendere in che maniera intendere espressioni quali «felicità
autentica» e «vero Amore» rapportati all’infinito (cioè al Tutto eterno) che
ogni vita è; pertanto, vengono specificate le diverse tappe con cui lo stesso infinito
vede il proprio sviluppo, attraverso la spiegazioni di concetti come «la Prima
Volta», «il Passaggio», «il Ritorno». Tentar qui una semplificazione di che
cosa indichino queste espressioni è compito assai difficile e poco praticabile;
basta però qui sottolineare come incessantemente l’Autore non faccia altro che
spiegare come l’autentica vita sia quella maestosità in cui consiste l’eternità
infinita dell’Intero, non mancando di indicare come ogni esperienza del Tutto
sia l’esperienza di tutti Noi, proprio per il fatto che Noi siamo quel Tutto
stesso che esperisce ogni esperienza. Sottolineo, inoltre, come nel Tragico Amore siano innumerevoli gli
incontri, nel senso più alto del dialogo filosofico, con altri interlocutori e
in altri campi: si spazia da un confronto col discorso filosofico di Severino,
sia direttamente rivolgendosi ai suoi lavori, sia indirettamente attraverso il
confronto con Roberto Fiaschi – studioso da anni di tale discorso (segnalo il
suo blog, emanueleseverinorisposteaisuoicritici.it,
curato con passione e serietà) –, per passare poi al rapporto tra il linguaggio
dell’Autore e quello «tecnologico». La ricchezza concettuale, insomma, si
rivela in tutta la sua portata fino a culminare nel terzo libro.
La presente opera,
infatti, dimostra di avere un intento diverso rispetto alle altre due. Ben
consapevole che prima o poi sarebbe stato necessario un confronto diretto con l’intera
storia della Filosofia, l’Autore offre al lettore un vero e proprio «Manuale» dal quale partire per poi
analizzare autonomamente, secondo la luce nuova offerta dall’intera Opera pellegriniana,
il percorso dell’umanità sino ai nostri giorni. È di gran lunga evidente che l’Autore
non può non sapere che esplicitare la diversa ricchezza propria di ogni «materia
della coscienza» (ossia di ogni specificazione del Tutto) non basterebbe a contenere
un singolo volume. Ecco perché l’intenzione è quella, come si ricava dal
sottotitolo, di ripercorrere «agli occhi della verità autentica», cioè in
riferimento a tutto ciò che Pellegrino ha scritto sin dall’inizio, i singoli momenti
dell’intera storia del pensiero filosofico. Il lavoro finale è monumentale e
lascia al lettore la libertà per poter essere affrontato secondo i propri tempi
ed esigenze. L’obiettivo è quello di permettere allo studioso di potersi dedicare
all’approfondimento di ogni singola pietruzza del cammino, invitandolo però ad
indirizzare il proprio studio nel rapporto e nel continuo dialogo con la verità
autentica del Tutto, in modo tale da vedersi alla fine trasfigurata e
chiarificata ogni singola pietruzza oggetto di indagine.
Il lettore attento
avrà a questo punto compreso la necessità di ritornare a quanto si diceva
all’inizio rispetto alla ricerca propria del filosofare. Mentre il «senso
comune» è per lo più incapace di indicare le diverse modalità in cui la verità
si mostra, la Filosofia si appresta a tale compito, non separandosi dalla realtà
a cui fa costante riferimento quel «senso comune», bensì chiarificando e delucidando
intorno alle questioni massime proprie di una siffatta realtà. Il dono di Pellegrino è dunque quello di
preservare lo spirito del filosofare e nello stesso tempo di continuare a
coltivarlo, nella convinzione che ripercorrere i temi cardine dell’ontologia
significhi contribuire ad esprimere compiutamente e concretamente quella verità
che ognuno di Noi è e che non può fare a meno di mostrarsi in tutta la sua
pienezza in ogni nostro singolo attimo di vita.
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